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Licenziamento per scarso rendimento
A cura della Redazione
 
Il periodo durante il quale vige il divieto di licenziamento del lavoratore, assente per malattia o infortunio, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2110 c.c., definito comunemente "periodo di comporto", trova la sua fonte principale nei contratti collettivi, che ne disciplinano la natura e la durata.
Il comporto può essere di due tipi:
a) comporto secco: ricorre quando la contrattazione collettiva si limita a prevederla durata del comporto rapportata esclusivamente alla malattia unica;
b) comporto per sommatoria: la contrattazione collettiva prevede un ampio arco temporale entro il quale non possono essere superati i periodi massimi complessivi di conservazione del posto di lavoro
Nelle ipotesi in cui il CCNL contempli, in termini estremamente generici, il solo istituto del cd. comporto secco (ad es: "Nei casi di interruzione del lavoro dovuta a malattia, l'azienda conserverà il posto al lavoratore per 12 mesi…"), si pone il problema di determinare l'arco temporale massimo entro cui conservare il posto, in presenza di una molteplicità di episodi morbosi omogenei o anche eterogenei.
In tal caso, in mancanza della previsione contrattuale, si ritiene che spetti al giudice determinare l'arco temporale di riferimento per il computo delle assenze (cfr.art. 2110 c.c., II comma).
Si consideri che nel determinare il periodo di comporto per sommatoria devono essere contati anche i giorni non lavorativi, come le domeniche e le festività infrasettimanali, e quelli non lavorati, come lo sciopero.
D'altro canto, il periodo di comporto è suscettibile di interruzione per effetto della richiesta del lavoratore di godere delle ferie.
Sul problema del comporto secco, si è formato un orientamento, ormai consolidato, della Suprema Corte, la quale ha avuto modo di sostenere addirittura la totale nullità di una clausola della contrattazione collettiva che preveda solo l'ipotesi del comporto secco ( cfr. Cass. 10131/93).
La stessa Cassazione (tra le altre: Cass. 6825/93 e 4328/83) ha autorevolmente sostenuto che il Giudice dovrà tenere presente che l' adeguamento integrale alla previsione legislativa (art. 2110 c.c.) deve avvenire individuando, mediante il ricorso alle fonti integrative (usi o equità) il periodo massimo di assenza, con l' utilizzazione, all' uopo, del comporto già previsto dalle parti per il caso di malattia unitaria, ed il maggior arco temporale in cui tale periodo deve esplicarsi. Al Giudice resta soltanto il compito di determinare, attraverso i criteri dell' equità integrativa (art. 1374 c.c.), il maggior periodo (rispetto al comporto secco) cui il comporto stesso (per sommatoria) deve attenersi. Di modo che non sarebbe legittima -perché eccessivamente lesiva degli interessi del lavoratore e, quindi, non atta a contemperare i contrapposti interessi delle parti del rapporto di lavoro, esigenza cui è ispirata la disciplina dettata dall' art. 2110 c.c. -un'interpretazione in virtù della quale l' unico termine previsto dal comporto ''secco'' sarebbe utilizzabile anche per le malattie multiple ed intermittenti, la cui durata, risultante dalla loro sommatoria, nell' arco di tutto il rapporto di lavoro, non potrebbe superare quell' unico termine, così da costringere il lavoratore a limitare forzosamente la durata delle malattie, per non incorrere nel pericolo di superare quel termine che potrebbe essere brevissimo nell' arco di un lungo rapporto lavorativo.
Ove la contrattazione collettiva, come avviene ancora di frequente, non preveda un termine di comporto per l' ipotesi di malattie plurime (o reiterate), e non vi siano usi utilmente richiamabili, il detto termine, unitamente a quello cosiddetto esterno (nell' ambito del quale deve essere sommata la durata dei diversi periodi morbosi), può essere correttamente ritenuto dal Giudice di durata coincidente con quello del comporto previsto per la malattia unica (Cass. n. 2624/96).
Così come, ove la stessa disciplina collettiva contempli soltanto il comporto secco per un' unica malattia, ed il prolungamento di esso in caso di ricaduta nella stessa malattia entro un periodo massimo dalla ripresa del lavoro, quel termine può essere determinato mediante integrazione secondo equità della disciplina collettiva, al fine di permetterne il puntuale adattamento al caso concreto, stabilendo il termine interno del comporto per sommatoria in misura corrispondente al previsto periodo prolungato per l' ipotesi in cui i diversi episodi morbosi verificatisi nell' arco del triennio (parametro di validità del CCNL), siano riferibili alla ricaduta nella medesima malattia (Cass. 896/94).
Tra le ultime e più autorevoli pronunce di merito, ricordiamo: Corte di appello di Bologna, Sez. Lavoro, 17/07/2000, Rava c/ Azienda Agricola Fratelli Ferruzzi ''Nel caso in cui il CCNL di riferimento regolamenti solo l' ipotesi del comporto cosiddetto ''secco'', compete al Giudice la determinazione di quello per sommatoria: in tale ipotesi pare congrua ed osservante dei criteri di equità integrativa di cui all' art. 2110 c.c. l' utilizzazione del periodo di comporto previsto per la malattia unitaria, da valutarsi nell' ambito del triennio, termine di durata media dei contratti nazionali di lavoro''.
Del pari problematica è la questione, alla prima collegata, relativa alla licenziabilità del lavoratore il quale, pur non avendo superato il periodo di comporto, abbia fatto registrare, anche in conseguenza di una morbilità eccessiva, uno scarso rendimento.
Il licenziamento per scarso rendimento costituisce un'ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, ossia per giustificato motivo soggettivo, ai sensi dell'art.3 della legge 604/66 che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento contrattuale, prevista dagli artt. 1453 e ss c.c.
L'analisi della Giurisprudenza si è in particolare soffermata sul problema della individuazione dei parametri di valutazione dello scarso rendimento come forma di inadempimento.
Si è in proposito osservato (cfr. in particolare Cass. 8973/91) che, nel rapporto di lavoro subordinato, il fatto che il lavoratore non sia obbligato al raggiungimento di un risultato, ma all'esplicazione delle proprie energie lavorative, nei modi e tempi stabiliti, non esclude in linea di principio che possano essere fissati parametri per consentire al datore di lavoro di verificare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e la professionalità medie richieste dalle mansioni svolte.
Per quanto riguarda la ripartizione tra le parti dell'onere della prova, la Cassazione (cfr.Cass.1421/96) ha più volte ribadito il principio secondo cui, in relazione all'ipotesi dello scarso rendimento, il datore di lavoro che intenda farlo valere quale motivo giustificato di licenziamento, non può limitarsi a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso, e la sua legittima esigibilità, ma è onerato della dimostrazione di un notevole imputabile inadempimento da parte del prestatore agli obblighi contrattuali, quale fatto complesso alla cui valutazione deve concorrere anche l'apprezzamento degli aspetti concreti del fatto addebitato, tra cui il grado di diligenza richiesto dalla prestazione, quello usato dal lavoratore, nonché l'incidenza dell'organizzazione dell'impresa e dei fattori socio-ambientali.
In ordine all'ipotesi delle assenze del dipendente per malattie a carattere intermittente o reiterato, ancorchè frequenti e discontinue in relazione ad uno stato di salute malfermo, si è recentemente espressa con autorevolezza la Suprema Corte (Cass. Sezione Lavoro, 14065/99), affermando la licenziabilità del dipendente, anche nell'ipotesi in cui abbia rispettato i limiti del periodo di comporto, "quando l'infermità abbia carattere permanente ed implichi pertanto definitiva incapacità fisica, e manchi un apprezzabile interesse del datore di lavoro alle future, ridotte prestazioni lavorative del dipendente". ( In senso conforme, tra le ultime: Cass. 4012/98, Cass. 10286/96; "contra":Cass. 1421/96 e Cass.10131/93).
Da ultimo, detto orientamento è stato confermato dalla stessa Suprema Corte nella sentenza 14 luglio 2001, n.9581: ''la sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, con conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, costituisce un giustificato motivo di recesso del datore di lavoro, indipendentemente da ogni correlazione con il periodo di comporto, quando abbia carattere definitivo e manchi un apprezzabile interesse datoriale alle attuali e future prestazioni lavorative ridotte che il dipendente sia in grado di offrire; il lavoratore, infatti, deve essere in grado di rendere tutte le prestazioni tipiche del settore di attività nella loro integrità e completezza (in quanto imprescindibilmente connesse con il ciclo produttivo di uno specifico reparto aziendale, nel quale ogni unità ivi adibita deve svolgere tutte le mansioni corrispondenti), ed il datore di lavoro può rifiutare le ridotte prestazioni offerte per le conseguenze negative ed il rallentamento da esse causate al normale ciclo produttivo''.
Ancora, Cassazione 2 aprile 1996, n.3040: ''ove si verifichi una sostanziale inidoneità permanente del lavoratore a svolgere le mansioni assegnategli, ancorché derivante dalle conseguenze lesive di un infortunio ormai consolidato, il datore di lavoro non è tenuto ad adibirlo ad altre mansioni, ma è legittimato a recedere dal rapporto per impossibilità della prestazione dovuta ad inidoneità fisica del prestatore di lavoro, in applicazione del principio per cui, in siffatte ipotesi, il difetto di interesse alla prosecuzione del rapporto va valutato alla luce dei criteri previsti per la configurabilità del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, senza necessità di attendere l'esaurimento del periodo di comporto, atteso che la disciplina dettata dall'art. 2110 cc. presuppone la diversa ipotesi dell'impedimento temporaneo del lavoratore affetto da malattia, tale da consentire, una volta che questa sia cessata, la ripresa del lavoro senza rischi di ulteriore usura dell'integrità fisica''.
In senso conforme, tra le numerose sentenze rese dai giudici di merito tra cui Pretura di Nola 5 marzo 1997, Morgillo c./ Soc. Fiat Auto; Tribunale di Torino 20 maggio 1995 Ergon spa c./Sisi.
Per verificare la inidoneità sopravvenuta del lavoratore alle mansioni, in conseguenza di frequenti e ripetuti episodi di morbilità, si consideri la possibilità per il datore di lavoro "di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico" (art.5, legge 300/70).


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