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Il diritto di proprietà
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a cura della redazione
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Il diritto di proprietà è costituzionalmente tutelato dall'art. 42 Cost., il quale statuisce che nel nostro ordinamento la proprietà può essere sia pubblica che privata, nell'ottica di un sistema di economia di mercato. Inoltre tale disposizione prevede espressamente che "la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti". Ciò determina un necessario contemperamento tra l'interesse del singolo proprietario e quello della collettività, che spesso viene affidato all'intervento di una normativa vincolistica. A norma dell'art. 832 c. c. il proprietario ha diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo, ovviamente osservando i limiti stabiliti dall'ordinamento; l'ampiezza del suo diritto subisce invece una compressione di diversa intensità qualora sulla medesima cosa gravino altri diritti reali di godimento, fino al punto che la proprietà viene denominata "nuda" nel caso in cui con essa concorra il diritto di usufrutto Proseguendo nell'analisi delle norme di applicabilità generale dettate in materia di proprietà, occorre soffermarsi sull'art. 833 c. c., la cui rubrica recita "atti di emulazione". Con tale disposizione il nostro legislatore ha inteso vietare che il proprietario ponga in essere atti volti esclusivamente a recare pregiudizio ad altri e non anche a produrre una qualche utilità per chi li compie. Tuttavia, detta norma, anche se in linea di principio condivisibile, trova rara applicazione; infatti è praticamente impossibile che il soggetto danneggiato da un atto di emulazione riesca a dimostrare che il proprietario non tragga neppure un minimo vantaggio dall'atto stesso. Mentre la dottrina ha tentato di rendere effettivo tale divieto, la giurisprudenza si è sempre attestata su una linea interpretativa letterale e rigorosa. Ad esempio, in passato si è ritenuto che un interesse, sia pure di ordine meramente estetico, soddisfatto dal proprietario con il suo comportamento possa legittimare un atto che, invece, pregiudica fortemente un diritto primario altrui, quale il diritto alla salute (Cass., 26 aprile 1975, n.1604). Una sentenza piuttosto recente della Corte di Cassazione, la n. 8251 del 6 giugno 2002, ha trattato in maniera approfondita la figura dell'abuso del diritto, ricostruendo i presupposti applicativi dell'art. 833 c. c. Quanto all'elemento oggettivo, per la qualifica dell'atto come emulativo è sufficiente una oggettiva sproporzione tra il pregiudizio altrui e l'utilità del proprietario. Quanto all'elemento soggettivo, si osserva come l'art. 833 c.c., nel suo tenore letterale, non conferisca rilevanza alcuna all'animus nocendi, in quanto lo "scopo" di cui la norma parla indica soltanto la finalità oggettiva dell'atto.
La proprietà fondiaria.
La maggior parte delle disposizioni dettate dal Titolo del Libro III del Codice Civile dedicato alla proprietà concerne la proprietà avente ad oggetto beni immobili, la cosiddetta proprietà fondiaria (artt. 840-921 c. c.). Tra le norme citate, è opportuno commentare almeno quelle di più frequente applicazione; a tale riguardo vengono in rilievo soprattutto l'art. 844 c. c., in materia di immissioni provenienti dal fondo del vicino, e le norme inerenti le distanze tra costruzioni. Il menzionato art. 844 c. c., al suo primo comma, consente le esalazioni, le immissioni e le propagazioni derivanti dal fondo del vicino, a meno che esse non superino la normale tollerabilità. Tale criterio deve necessariamente adattarsi alle circostanze del caso concreto, onde valutare se si debbano far prevalere le esigenze della produzione ovvero le ragioni della proprietà. A tal fine l'autorità giudiziaria a cui ci si rivolga per la tutela dei propri diritti gode di ampi poteri discrezionali di intervento, potendo essa limitarsi a permettere la prosecuzione delle immissioni previa corresponsione di un indennizzo in favore del titolare del fondo danneggiato, così come condannare il proprietario del fondo da cui provengano le esalazioni ad adottare gli accorgimenti tecnici volti a ricondurre le immissioni stesse entro il limite della normale tollerabilità. D'altronde, sebbene la materia nel tempo sia divenuta oggetto di numerose leggi speciali e regolamenti che rischiano di ingenerare confusione, la Suprema Corte ha chiarito che tali norme hanno natura meramente pubblicistica e che, pertanto, nei rapporti tra privati, continua a trovare applicazione esclusivamente l'art. 844 c. c.(Cassazione, sent. 29/4/2002 n.6223). Spesso i rapporti di vicinato determinano l'insorgere di conflitti relativi al rispetto della distanza tra le costruzioni. A tale proposito occorre fare riferimento agli artt. 873 e segg. c. c. La normativa in commento pone innanzitutto una misura fissa di tre metri come standard per la distanza minima tra le costruzioni non unite o aderenti tra loro, demandando ai regolamenti locali la facoltà di stabilire distanze maggiori, ma mai distanze inferiori. La ratio di tale disposizione è evidente: la tutela dell'igiene pubblica impone, infatti, una distanza tra gli edifici che assicuri luce e aria sufficienti. Il discorso cambia allorché la costruzione venga realizzata in appoggio o in aderenza ad una preesistente. Nel primo caso vi è comunione forzosa del muro su cui ci si appoggia e si è tenuti a pagare la metà del valore del muro stesso; nella seconda ipotesi, invece, si fabbrica lungo il muro a stretto contatto di questi, senza appoggiarvisi, e non è necessario sostenere alcuna spesa.
I modi di acquisto della proprietà.
I modi di acquisto della proprietà vengono elencati in maniera del tutto esemplificativa dall'art. 922 c. c.; essi sono l'occupazione, l'invenzione, la scoperta del tesoro, l'accessione, l'unione o commistione, la specificazione e l'usucapione. La disposizione, peraltro, individua anche taluni fenomeni che consentono l'acquisto a titolo derivativo anche di diritti diversi dalla proprietà: si tratta della successione in forza di contratti e di quella a causa di morte, nonché degli altri modi previsti dalla legge, cui l'art. 922 c. c. rinvia. L'occupazione è un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, che prescinde, cioè, dalla preesistenza della proprietà altrui sul medesimo bene. Detta occupazione, a norma dell'art. 923 c. c., può compiersi esclusivamente con riferimento alle c. d. res nullius, ossia a cose che non risultano di proprietà di alcuno (si pensi alla selvaggina), quando concorrano sia il requisito oggettivo dell'impossessamento del bene, sia quello soggettivo della volontà dell'occupante. Peraltro, attraverso una lettura sistematica di tale norma, si rileva che il mezzo di acquisto della proprietà in commento può riguardare esclusivamente beni mobili, dal momento che i beni immobili vacanti, ai sensi dell'art. 827 c. c., diventano di proprietà dello Stato. Parzialmente diversa dall'occupazione è l'invenzione, regolata dagli artt. 927 e segg. c. c., che, oltre a disciplinare le modalità d'acquisto delle cose mobili ritrovate, mostrano chiaramente il favore del legislatore perché le cose smarrite siano restituite ai proprietari. Premesso che per cosa smarrita deve intendersi quella cosa di cui il proprietario o possessore o detentore abbia perso la disponibilità materiale, chi la trova è tenuto a renderla al proprietario, se lo conosce, mantenendo soltanto il diritto ad un premio proporzionale al valore del bene ritrovato. Nel caso in cui, invece, non si conosca il legittimo proprietario della cosa, chi rinviene l'oggetto deve consegnarlo al Sindaco del luogo del ritrovamento perché affigga per due domeniche successive nell'albo comunale idoneo avviso del ritrovamento stesso: qualora il proprietario non reclami il bene entro un anno dal rinvenimento, automaticamente l'inventore ne acquista la proprietà. Ormai essenzialmente di scuola è l'ipotesi della scoperta del tesoro, che presuppone il reperimento di una cosa mobile di pregio nascosta o sotterrata, di cui nessuno possa provare di essere il proprietario. L'accessione in senso proprio, disciplinata dagli artt. 934 e segg. c. c., si fonda sul principio generale per cui la proprietà del suolo attrae anche la proprietà delle costruzioni e/o piantagioni che vi vengano realizzate, fatti salvi i rapporti di carattere obbligatorio che ne possono derivare. Se infatti, per esempio, il proprietario del fondo costruisce un'opera sul proprio terreno utilizzando materiali altrui, questi ultimi siano facilmente separabili dal manufatto e ciononostante la separazione non venga richiesta dal loro proprietario entro 6 mesi dal giorno in cui è stato messo a conoscenza dell'incorporazione di essi nel nuovo bene, il proprietario del fondo diventerà anche proprietario della costruzione e dovrà corrispondere esclusivamente il valore dei materiali impiegati al legittimo proprietario di essi. Intervenendo in materia, peraltro, la Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 6078 del 26 aprile scorso, ha precisato che la normativa codicistica non può essere derogata che da specifiche disposizioni di legge ovvero da altrettanto specifiche pattuizioni tra le parti; non è quindi ammesso derogarvi attraverso un negozio unilaterale come un testamento. La fattispecie prevista dall'art. 938 c. c., "occupazione di porzione del fondo attiguo altrui", nota anche come accessione invertita, in realtà rappresenta un'eccezione alla regola appena enunciata solo in via eventuale. Tale norma, infatti, dispone che, qualora si realizzi un edificio occupando parzialmente il fondo confinante altrui, in linea di massima il proprietario del terreno occupato acquista altresì la proprietà di quella parte di costruzione che insiste sul proprio fondo. Tuttavia, in presenza delle condizioni richieste dalla legge, detta regola viene ad essere capovolta: in particolare, a tal fine, occorre che l'occupazione del suolo sia avvenuta in buona fede, che il proprietario del suolo non richieda l'abbattimento dell'edificio entro tre mesi dall'inizio della costruzione e che il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, tenuto anche conto delle circostanze, attribuisca la proprietà del suolo occupato al proprietario della costruzione, con efficacia costitutiva. Ciò detto, residuerà comunque,a carico di chi abbia acquisito la proprietà della porzione del fondo altrui, l'obbligo di corrispondere al precedente proprietario un'indennità pari al doppio del valore del terreno stesso. Detta regola, da ultimo, si riferisce esclusivamente alla costruzione di un edificio, cioè di una struttura muraria complessa, e pertanto non può essere invocata con riguardo ad opere diverse, quali un muro di cinta (Cass., 10 febbraio 1984, n. 1018). Sul principio fondamentale dell'accessione si basano, inoltre, anche alcuni fenomeni naturali, di derivazione romanistica, quali l'alluvione, l'avulsione, da identificare nel distaccamento di talune parti consistenti di un fondo che, per effetto della piena di un fiume o di un torrente, si incorporano ad un altro terreno, l'alveo abbandonato ed altri similari, che presuppongono eventi meramente naturali e costituiscono ipotesi di accessione da immobile a immobile. Si parla, invece, di accessione da mobile a mobile quando si analizzano quei modi di acquisto della proprietà che sono l'unione o commistione e la specificazione. Per quanto concerne la prima, essa è integrata nel caso in cui due o più cose, appartenenti a diversi proprietari, vengono unite o mescolate in modo da formare una cosa sola. In realtà, in tale ipotesi, si verifica il sorgere di una situazione di comproprietà, proporzionale alla quantità degli elementi originariamente di proprietà di ciascuno, purché detti materiali non risultino facilmente separabili; solo qualora sia individuabile una cosa principale o notevolmente superiore per valore, il proprietario di questa diventa proprietario del tutto, salvo l'obbligo di versamento di un indennizzo in denaro. Discorso analogo dev'essere compiuto per quel che riguarda la specificazione. Essa, regolata dall'art. 940 c. c., si realizza ogniqualvolta un soggetto, lavorando una materia di proprietà altrui, dia forma ad una nuova cosa: essa viene acquistata direttamente dallo specificatore, il quale dovrà poi pagare al proprietario il prezzo della materia, a meno che il valore della materia stessa superi notevolmente quello della manodopera. Il legislatore ha dunque inteso assicurare una tutela più intensa al lavoratore ed alla sua opera.
La tutela della proprietà.
Gli strumenti posti dal nostro ordinamento a tutela del diritto di proprietà e contemplati dagli artt. 948-951 c. c. sono, rispettivamente, l'azione di rivendicazione, l'azione negatoria, l'azione di regolamento di confini e di apposizione di termini. A ben vedere, peraltro, al proprietario, così come al possessore, spettano anche le cc. dd. azioni di nunciazione, ossia la denuncia di nuova opera e la denuncia di danno temuto, regolate dagli artt. 1171-1172 c. c. e su cui si tornerà nella sezione dedicata al possesso. Il principale rimedio processuale, tra quelli in commento, è indubbiamente l'azione di rivendicazione, volta a recuperare il bene sfuggito alla disponibilità del proprietario in quanto a lui sottratto. Tale azione persegue dunque una finalità essenzialmente recuperatoria, sebbene con essa il proprietario possa chiedere anche l'accertamento del suo diritto. L'azione e la pronuncia di accertamento sono assai utili soprattutto nel caso in cui l'acquisto sia avvenuto in via possessoria e senza titolo formale, cioè per usucapione (Cass., 30 marzo 1985, n. 2239). Legittimato attivo, pertanto, è esclusivamente il proprietario, che, in qualità di attore, secondo il principio generale in materia di onere della prova, è tenuto a dimostrare gli elementi costitutivi del diritto fatto valere. Detto onere, peraltro, non sempre è di facile adempimento, configurandosi talora addirittura come probatio diabolica, soprattutto qualora il diritto sia stato acquistato da un precedente proprietario; in tali casi, tuttavia, vengono in soccorso alcuni correttivi dettati in materia di possesso. Legittimato passivo dell'azione di rivendicazione è invece chiunque abbia il possesso o la detenzione della cosa ovvero chi, prima della proposizione della domanda giudiziale, abbia consapevolmente ceduto il bene a terzi; in tal caso colui che abbia sottratto la cosa al proprietario sarà obbligato a reperirla e restituirla allo stesso ovvero a corrispondergli l'equivalente in denaro qualora il bene non possa essere ritrovato. La predetta azione è imprescrittibile, fatti salvi gli acquisti validamente effettuati da terzi per usucapione, ed è soggetta a trascrizione. L'actio negatoria, invece, può essere promossa dal proprietario che tema di subire pregiudizio da terzi che vantino sulla medesima cosa diritti reali minori, cosicché legittimato passivo è soltanto il titolare di un diritto reale di godimento; è necessario, peraltro, che il pericolo di molestia sia effettivo, non rilevando la mera affermazione della titolarità di un diritto da parte di un terzo. Anche tale strumento di difesa della proprietà è imprescrittibile e soggetto a trascrizione. Sia l'azione di regolamento di confini che quella di apposizione di termini hanno ad oggetto esclusivamente la proprietà fondiaria; esse, inoltre, sebbene apparentemente simili, si fondano su presupposti ben distinti. La prima, infatti, è volta ad ottenere dall'autorità giudiziaria la precisa determinazione della linea di confine atta a separare due fondi attigui; a tal fine, dovrà essere espletata idonea consulenza tecnica; soltanto qualora perduri l'incertezza, avranno efficacia probatoria i certificati catastali. L'azione di apposizione di termini, invece, ha l'unico scopo di ripristinare i termini mancanti o divenuti irriconoscibili ripartendo equamente la spesa tra i proprietari finitimi; in tal caso la delimitazione del confine non è in dubbio. In giurisprudenza, si è soliti affermare che l'azione personale di apposizione di termini può mutarsi in quella reale di regolamento di confini ogniqualvolta, in relazione alle eccezioni sollevate dal convenuto, insorga tra le parti un contrasto sulla linea di confine lungo la quale i termini debbono essere apposti (tra le altre, Cass., 5 dicembre 1985, n. 6107).
Il diritto di superficie.
Il diritto di superficie è il primo diritto reale di godimento su cosa altrui regolato dal nostro Codice Civile e definito dal combinato disposto degli artt. 952 e 954 c. c. come il diritto di fare e di mantenere una costruzione al di sopra o al di sotto del suolo di proprietà altrui. Tale nozione di diritto di superficie, peraltro, non deve essere confusa con quella di proprietà superficiaria, la cui titolarità deriva dall'acquisto di una costruzione già ultimata e sorta su un terreno rimasto di proprietà altrui. Le due situazioni, dunque, possono coesistere in capo al medesimo soggetto, il quale, in quanto acquirente di un edificio già costruito, diviene titolare sia del diritto di superficie, volto a consentirgli di riedificare in caso di perimento dell'immobile, sia della proprietà superficiaria della costruzione, di cui può pertanto disporre in modo pieno ed esclusivo. Il diritto di superficie può sorgere in via convenzionale o per usucapione. Nella maggior parte dei casi, infatti, il diritto di superficie viene ad esistenza a seguito della stipula di un contratto ad effetti reali, che cioè produce in modo immediato e diretto la costituzione del diritto sulla cosa, avente forma scritta a pena di nullità, oppure successivamente alla pubblicazione di un testamento che contenga una disposizione in tal senso. Si diventa altresì titolari di un diritto di superficie allorché per almeno venti anni si sia esercitato sul suolo altrui un possesso conforme al contenuto del diritto in oggetto. Frequente nella prassi è il ricorso allo schema del diritto di superficie qualora si voglia concedere a privati il diritto di edificare su un suolo pubblico; in tal caso, peraltro, la Pubblica Amministrazione impone ai superficiari ulteriori vincoli e limitazioni nel superiore interesse della collettività, cosicché il mancato rispetto di detti limiti comporta la decadenza dal diritto di superficie. Il titolare di un diritto di superficie può altresì costituire un'ipoteca sul bene oggetto del suo diritto; al proprietario superficiario, di contro, è consentito anche costituire sul bene un diritto di servitù o di abitazione. A tal punto è necessario soffermarsi sulla sorte del diritto d'ipoteca e degli altri diritti reali costituiti dal superficiario. Qualora il diritto di superficie si estingua per scadenza del termine originariamente previsto, ciò comporta anche l'estinzione dell'ipoteca; allorché, invece, il diritto di superficie venga meno per una causa diversa, l'ipoteca continua a gravare separatamente sulla costruzione. Analoghi principi si applicano con riferimento alla sorte dei diritti reali di godimento. Prendiamo ora in esame le cause di possibile estinzione del diritto di superficie. Esse possono distinguersi a seconda che presentino natura convenzionale, producano la conseguenza della consolidazione in capo allo stesso soggetto della proprietà del suolo e del diritto di superficie ovvero consistano nella prescrizione per non uso ventennale. Un'ipotesi particolare, peraltro, si configura a seguito della mancata osservanza da parte dei privati delle norme dettate dalla pubblica autorità per l'esercizio dello ius ad aedificandum ( c. d. decadenza). Il Codice civile, inoltre, non prevede il residuare di alcun effetto obbligatorio successivamente all'estinzione del diritto di superficie.
Il diritto di enfiteusi.
Il diritto di enfiteusi, retaggio dell'epoca del feudalesimo, ha trovato regolamentazione nel codice civile del 1942 agli articoli 957-977 al fine di incentivare la produttività delle terre grazie all'attività degli agricoltori. La posizione dell'enfiteuta è sostanzialmente equiparata a quella del proprietario, di cui vengono mutuate le facoltà, fatta eccezione per due obblighi specifici che connotano la figura dell'enfiteuta: l'obbligo di miglioramento del fondo ottenuto in concessione e l'obbligo di pagamento di un canone periodico al dominus. Il legislatore ha dunque previsto una scissione tra la titolarità giuridica del diritto e l'esercizio delle facoltà connesse al godimento. Ciò detto, il diritto di enfiteusi può sorgere attraverso la stipula di atti di autonomia privata, che, avendo ad oggetto beni immobili, per lo più di destinazione agricola, richiedono la forma scritta a pena di nullità; in forza di provvedimenti amministrativi; per usucapione. Per quel che riguarda la posizione del proprietario-concedente, essa può essere sintetizzata in un quadro di diritti e di obblighi essenziali: a) il diritto al miglioramento del fondo, che, nel silenzio del patto intercorso tra privati, può consistere anche in un mutamento della destinazione economica dell'immobile e deve comunque essere considerato anche alla luce delle capacità lavorative dell'enfiteuta; b) il diritto di credito al canone periodico; c) il diritto di chiedere la ricognizione dell'enfiteusi, mediante una dichiarazione resa dall'enfiteuta e volta ad interrompere il periodo di possesso del bene valido ai fini dell'usucapione; d) il diritto di devoluzione, in caso di inadempimento degli obblighi previsti dalla legge da parte dell'enfiteuta, il quale, pertanto, non migliora o deteriora il fondo oppure non versa almeno due annualità di canone; e) il diritto di ritenzione delle addizioni poste in essere dall'enfiteuta. L'obbligo principale del dominus deve invece essere individuato nell'obbligo di rimborsare all'enfiteuta il valore dei miglioramenti apportati sul fondo. I diritti dell'enfiteuta, d'altro canto, vanno ricercati nel diritto di affrancazione, cosicché il concessionario possa acquistare la piena proprietà del fondo versando al concedente una somma attualmente pari a quindici volte l'ammontare del canone, nel diritto di credito al rimborso del maggior valore dato al fondo grazie alla propria opera, nonché nel diritto di ritenzione delle addizioni unite al terreno qualora il loro valore non gli venga rimborsato dal proprietario. Degli obblighi dell'enfiteuta già si è detto. Da ultimo, l'estinzione del diritto di enfiteusi può avvenire per una serie di motivi: per scadenza del termine finale eventualmente apposto, termine che comunque non può essere inferiore a venti anni (la giurisprudenza di legittimità fin dal 1945 ha affermato che, nel silenzio del titolo, si presume la perpetuità dell'enfiteusi); per la devoluzione esercitata dal concedente, che pertanto riunisce in sé la titolarità del diritto e l'esercizio delle facoltà ad esso connesse; in virtù del diritto di affrancazione esercitato dall'enfiteuta; per il perimento integrale del fondo, che fa venir meno l'oggetto stesso del diritto, nonché per il non uso del diritto di enfiteusi protratto per venti anni. La giurisprudenza della Suprema Corte, peraltro, ha avuto modo di esaminare un'ampia casistica di ipotesi che possono condurre all'estinzione del diritto di enfiteusi: in un'occasione ha dunque chiarito che non si ha perimento totale del fondo nel caso in cui sia possibile un'altra destinazione, ancorché meno produttiva; successivamente ha inoltre precisato che non è equiparabile al perimento totale neppure l'acquisto del carattere.
Il possesso.
A norma dell'art. 1140 c. c. il possesso dev'essere inteso come il potere sulla cosa che si manifesta nell'esercizio della proprietà o di altro diritto reale, l'apparenza dell'esercizio di un diritto reale. Esso può essere sia titolato che non titolato, ossia può essere sorretto anche da una giustificazione giuridica oppure esserne privo. Da più parti ci si è domandati per quale motivo l'ordinamento ha apprestato tutela ad una situazione che può anche essere originata da un'azione illegittima di spoglio; in realtà ciò che si intende garantire è l'effettività del rapporto instaurato dal possessore con la cosa. Tradizionalmente, fin dalle prime riflessioni in materia, si è affermato che due sono i presupposti essenziali perché si possa parlare di possesso giuridicamente rilevante: il c.d. corpus, il potere di fatto esercitato sul bene, e il c. d. animus possessionis, l'elemento psicologico, ossia l'intenzione del soggetto di tenere la cosa come propria; è pertanto necessario che concorrano entrambi gli elementi menzionati. Perché possa concretamente ravvisarsi una relazione tra la persona e la cosa, è ovviamente necessario che la prima tenga un comportamento positivo, oggettivamente apprezzabile; in quest'ottica non potrà perciò rilevare l'inerzia del soggetto, che pure rappresenta in astratto una forma di esercizio della proprietà, e neanche i diritti nudi e le servitù negative. Proseguendo nella lettura dell'art. 1140 c. c., si rileva la precisazione che si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona che ha la detenzione della cosa: emerge, dunque, una distinzione tra possesso immediato e mediato. Quest'ultima situazione, generalmente chiamata detenzione, invero, non deve essere confusa con il possesso vero e proprio, in quanto difetta innanzitutto del requisito dell'animus. Infatti la detenzione di una cosa si fonda sempre sulla titolarità di un diritto personale di godimento (es. contratto di locazione) o su un'obbligazione (es. contratto di deposito), tanto che , perché la detenzione possa evolversi in possesso, è necessario che intervenga la c. d. interversio possessionis, attraverso l'opposizione manifestata dal detentore al possessore, con cui il primo dichiara di iniziare a possedere la cosa a nome proprio. Ciononostante, una tutela possessoria è accordata dal legislatore anche al detentore, purché non sia tale per mere ragioni di ospitalità o di servizio, mediante l'esercizio dell'azione di reintegrazione. Un'altra tipologia di relazione con la cosa che non vale a configurare il corpus richiesto dalla legge è quella degli atti di tolleranza, cioè gli atti compiuti con l'altrui tolleranza, grazie a relazioni di familiarità, di amicizia e di buon vicinato. Nulla vieta, peraltro, che tali atti, pure generalmente di scarsa importanza pratica, evolvano in possesso. Anche le modificazioni e la perdita del possesso sono strettamente legate all'atteggiarsi degli elementi del corpus e dell'animus; pertanto è sicuramente possibile che si passi da un possesso a contenuto minore ad uno a contenuto maggiore e viceversa; per quanto concerne poi la durata del possesso, la legge pone alcune presunzioni, dettate dagli artt. 1142 e 1143 c. c., secondo i quali, in primo luogo, se chi possiede oggi ha posseduto una determinata cosa anche in un tempo remoto, si presume, salvo prova contraria, che egli l'abbia posseduta anche nel periodo intermedio; inoltre, si ammette che il possessore attuale abbia posseduto anche in precedenza, qualora possa fondare detto possesso su un titolo, sebbene non valido. Un'attenzione particolare merita poi la norma contenuta nell'art. 1146 c. c., che disciplina le ipotesi di successione e accessione del possesso. Il primo fenomeno consiste nella parificazione del possesso alle altre situazioni giuridiche patrimoniali del defunto, per cui anche il possesso continua in capo all'erede, con effetti che decorrono dall'apertura della successione; il secondo comma dell'articolo citato prevede, invece, che il successore a titolo particolare, a causa di morte e per atto tra vivi, può unire il proprio possesso a quello del suo dante causa per goderne degli effetti. Tali meccanismi consentono di agevolare il proprietario che, non potendo più ricorrere alla tutela possessoria, debba promuovere un'azione ordinaria e, dunque, dimostrare i fatti costitutivi del suo diritto: egli, infatti, potrà così provare di possedere la cosa da un periodo di tempo che gli ha consentito di usucapirla. Una disciplina particolare è dettata con riferimento al possessore di buona fede, ossia chi possiede ignorando di ledere l'altrui diritto. L'art. 1147 c. c., nell'individuare detta figura, accoglie una nozione di buona fede in senso soggettivo, da intendere come stato psicologico che si basa sulla commissione di un errore inerente la condizione giuridica del bene. La norma da ultimo citata, inoltre, sancisce una disciplina di favore per il possessore, fissando innanzitutto una presunzione di buona fede, cosicché spetta non al possessore dimostrare di essere incorso nel suddetto errore, ma a chi contro di lui agisce provarne la malafede, e precisando altresì che la sussistenza della buona fede rileva esclusivamente al momento dell'acquisto del possesso, nel senso che "mala fides superveniens non nocet".
Gli effetti del possesso.
Gli effetti prodotti dalla situazione "possesso" possono raggrupparsi in tre distinte categorie: - i diritti e gli obblighi del possessore di restituire la cosa; - gli effetti derivanti dall'acquisto di un bene mobile da un soggetto non legittimato in base ad un titolo idoneo (c. d. regola "possesso vale titolo"); - l'acquisto della proprietà a titolo originario per usucapione in virtù del possesso e del decorso del tempo. Iniziando ad esaminare la prima tipologia di effetti indicati, viene in rilievo la disciplina dei frutti, che differenzia opportunamente, a tale riguardo, la posizione del possessore di buona fede da quella del possessore di malafede. Il primo, infatti, a prescindere dall'origine del suo possesso, acquista la proprietà dei frutti naturali separati dalla cosa-madre e dei frutti civili maturati fino al giorno della proposizione della domanda giudiziale da parte del proprietario, mentre, dopo che è stato posto in essere l'atto introduttivo del processo, risponde verso il proprietario rivendicante dei frutti percepiti e percepibili, da calcolare in relazione alla normale fruttificazione della cosa; il secondo, invece, è tenuto a restituire tutti i frutti fin dall'impossessamento del bene. Ai sensi dell'art. 1149 c. c., inoltre, il possessore ha sempre diritto al rimborso delle spese da lui sostenute per la produzione e il raccolto della cosa, purché necessarie. Per quel che concerne, invece, le spese affrontate per i miglioramenti, le addizioni e le riparazioni apportate al bene, occorre compiere alcune distinzioni. Il denaro versato dal possessore per eseguire le riparazioni ordinarie della cosa, di semplice manutenzione, deve essere rimborsato a tutti i possessori tenuti alla restituzione dei frutti, limitatamente al tempo per il quale la restituzione è dovuta, nonché, dopo la domanda giudiziale, al possessore di buona fede; le spese sostenute per le riparazioni straordinarie, invece, sono rimborsabili integralmente anche al possessore di mala fede in quanto incidenti sulla struttura stessa del bene. Quanto pagato dal possessore per arrecare miglioramenti al bene viene rimborsato mediante la corresponsione di un'indennità subordinata alla sussistenza del miglioramento al momento della restituzione e di diverso ammontare, a seconda che il possessore sia di buona o di malafede. Il diritto del possessore di buona fede a ricevere un indennizzo per i miglioramenti arrecati al bene altrui, così come previsto dall'art. 1150 del codice civile, è peraltro strettamente connesso all'aumento attuale ed effettivo che si verifica nel patrimonio del proprietario che agisce per la rivendica del bene. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (sentenza n. 16012/2002) precisando però che, ove l'opera realizzata sia necessariamente destinata alla demolizione, si deve escludere il diritto del possessore all'indennizzo data la precarietà dell'aumento di valore conseguito dal fondo rivendicato. Per quanto riguarda, invece, le addizioni della cosa realizzate dal possessore, va detto che questi può essere costretto a rimuovere quelle opere che non siano migliorative; nessun rimborso è ovviamente previsto per le spese voluttuarie. I menzionati diritti di credito vantati dai possessori di buona fede sono assistiti da un eccezionale strumento di autotutela, quale il diritto di ritenzione della cosa a fronte dell'inadempimento del proprietario rivendicante; fino alla regolare esecuzione dell'obbligo di quest'ultimo di versare le indennità dovute, il possessore dovrà pertanto custodire e gestire il bene in via ordinaria. La summenzionata regola "possesso vale titolo", denominata anche usucapione speciale, è sancita dall'art. 1153 c. c., il quale prevede che chi acquista in buona fede beni mobili "a non domino" in base ad un titolo di per sé idoneo al trasferimento, acquista la proprietà o altro diritto reale sul bene. Il nostro legislatore ha inteso così tutelare la circolazione dei beni mobili, delineando una fattispecie complessa di acquisto a titolo originario. A questo punto pare opportuno precisare ulteriormente i presupposti richiesti: la buona fede, da intendere qui come la convinzione specifica di aver acquistato il diritto, deve sussistere al momento della traditio, ossia della consegna materiale e effettiva della cosa; il bene può provenire esclusivamente "a non domino", non anche da chi risulti suo effettivo proprietario o da un falso rappresentante; ancora, l'idoneità del titolo va valutata in astratto, nel senso che il titolo, atto ad efficacia reale, deve risultare privo di vizi ulteriori rispetto al difetto di legittimazione di chi ha disposto del bene. L'usucapione è un modo di acquisto a titolo originario di diritti reali di godimento, fatta eccezione per le servitù non apparenti, fondato su un possesso continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico della cosa, unito al decorso del tempo stabilito dalla legge. La realizzazione della fattispecie complessa dell'usucapione produce l'estinzione dei diritti reali altrui esistenti sul medesimo bene, ma qual è il suo fondamento? Attraverso la previsione dell'usucapione l'ordinamento ha inteso eliminare l'incertezza del contrasto tra stato di fatto e stato di diritto, sanzionando in qualche modo chi si disinteressa all'esercizio del proprio diritto e privilegiando, invece, chi in realtà assuma una condotta attiva nei confronti della cosa. Al fine di individuare quale diritto venga acquistato per usucapione è ovviamente necessario rifarsi alle modalità di esercizio, all'immagine del possesso; una mera detenzione, infatti, non è assolutamente rilevante. A tale riguardo, peraltro, vanno chiariti i caratteri del possesso che consentono di usucapire il diritto reale di volta in volta esercitato. Innanzitutto occorre esercitare in maniera costante e uniforme i poteri sulla cosa (requisito della continuità); il possesso non deve mai essere interrotto per un periodo superiore all'anno; il possesso acquistato in modo violento o clandestino non giova per l'usucapione se non da quando la violenza o la clandestinità sono cessate per il venir meno della violenza fisica o morale o per l'esteriorizzazione del possesso (pacifico e pubblico). Sotto il profilo del tempo occorrente per l'integrazione della fattispecie in oggetto, il legislatore distingue tra usucapione ordinaria e speciale, che si caratterizza per la previsione di termini abbreviati e del concorso di altri requisiti, affini a quelli indicati in materia di regola "possesso vale titolo". In linea generale l'usucapione necessita di un periodo di venti anni per il possesso avente ad oggetto beni immobili, universalità di mobili e mobili acquistati in malafede; di dieci anni quando il possesso riguarda beni mobili registrati e beni mobili acquistati in buona fede. In via eccezionale, l'usucapione agraria di fondi rustici siti in Comuni montani si verifica quando il possesso, oltre a presentare i suddetti requisiti, perdura per quindici anni (art. 1159bis c. c.) L'usucapione speciale viene integrata dalla sussistenza dei presupposti di cui all'art. 1153 c. c. e dal decorso di termini abbreviati (10 anni per immobili e universalità di mobili, 5 anni per l'usucapione agraria e 3 anni per i beni mobili registrati). L'usucapione viene interrotta a seguito della proposizione di una domanda giudiziale volta a rivendicare il diritto sulla cosa ovvero del riconoscimento del diritto stesso da parte del possessore.
La tutela del possesso.
La tutela della situazione del possesso assolve ad una funzione conservativa dei poteri di fatto esercitati sulla cosa ed è pertanto improntata ad un criterio di sommarietà. Gli strumenti processuali predisposti dal legislatore a tal fine sono l'azione di reintegrazione e l'azione di manutenzione (c. d. azioni possessorie), disciplinate dagli artt. 1168-1170 c. c., e la denuncia di nuova opera e la denuncia di danno temuto, meglio note come azioni di nunciazione, esercitabili anche dal proprietario e dai titolari degli altri diritti reali di godimento (artt. 1171-1172 c. c.). L'azione di reintegrazione è diretta a porre rimedio alla sottrazione della cosa oggetto di possesso al fine di ripristinare la preesistente situazione possessoria. Legittimati a promuovere tale azione sono sia il possessore che il detentore, purché non per ragioni di servizio o di ospitalità, nei confronti dell'autore dello spoglio. Anche il conduttore di un immobile, pertanto, può promuovere azione possessoria nei confronti dell'autore dello spoglio. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (sent. 29 aprile 2002 n.6221) specificando che il conduttore va considerato "detentore qualificato" per conto del locatore possessore. Ne discende che egli ha diritto a tutelare la propria situazione giuridica attraverso l'esercizio dell'azione di reintegrazione .Affinché la domanda sia accoglibile è inoltre necessario che la cosa si trovi ancora nella materiale disponibilità di chi l'ha sottratta e non sia stata distrutta o consegnata ad altri. L'attore, poi, deve essere spogliato del suo possesso in modo volontario e violento o clandestino. L'azione in commento è peraltro sottoposta al termine di decadenza di un anno, con decorrenza dal sofferto spoglio o dalla scoperta della perdita del possesso. A ben vedere, l'immediatezza della tutela possessoria emerge già dalla lettera dell'art. 1168 c. c., ai sensi del quale il giudice deve ordinare la reintegrazione sulla base della semplice notorietà del fatto, senza dilazione. Lo scopo dell'azione di manutenzione è quello di assicurare il pacifico godimento di una situazione possessoria in atto, inibendo i comportamenti ad essa contrari. Essa è esperibile da parte del solo possessore, non anche dal detentore, e tutela esclusivamente il possesso continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico di immobili o universalità di mobili che duri da più di un anno, così da figurare come un'apparenza di diritto. Per poter godere di tale tutela il possessore deve aver subito una molestia o una turbativa, che rendano disagevole l'esercizio del possesso, laddove lo spoglio lo esclude; la distinzione tra le due azioni spesso è piuttosto labile, tuttavia la giurisprudenza ha provveduto ad ampliare notevolmente la nozione di molestia rilevante, purché essa risulti d'intensità apprezzabile. La Corte di Cassazione, ha ora chiarito (Sentenza n. 15788 dell'11 novembre 2002) che "non ogni attività materiale posta in essere dal terzo sulla cosa da altri posseduta configura necessariamente una molestia del possesso, ma solo quella che rispetto ad esso abbia un congruo ed apprezzabile contenuto di disturbo e denoti di per sé una pretesa dell'agente in contrasto con la posizione del possessore, così da rendere il suo estrinsecarsi impossibile, gravoso oppure notevolmente difficoltoso". Ne discende, secondo i giudici della Corte, che non costituiscono molestia quei comportamenti che risultano compatibili con l'esercizio del potere di fatto del possessore e che non pregiudicano né limitano in modo apprezzabile tale potere. E' stato così escluso, nella fattispecie presa in esame dalla Corte, che la semplice sostituzione di una vecchia rete metallica, posta a confine tra due proprietà, con una nuova rete (che non implica restringimento, modificazione o limitazione del possesso) possa costituire turbativa. Anche per l'azione in oggetto la legge prevede il termine di decadenza annuale. Va infine sottolineato che, qualora abbia subito dei danni, il possessore potrà sempre attivare la tutela risarcitoria ex art. 2043 c. c. La funzione svolta dalle azioni di nunciazione è essenzialmente cautelare, di natura preventiva e inibitoria. La denuncia di nuova opera, in particolare, presuppone un intervenuto mutamento dello stato dei luoghi, un'opera intrapresa da altri sul proprio o sull'altrui fondo e non completata, ed un pericolo incombente di danno per l'oggetto del possesso altrui. Il giudice effettua una sommaria cognizione del fatto, disponendo la sospensione o autorizzando la continuazione dell'opera, ma con le opportune cautele. Il termine di decadenza qui previsto è di un anno dall'inizio effettivo dell'opera. La denuncia di danno temuto si riferisce, invece, a opere già compiute sulla cosa minacciata, che comportano un pericolo grave e imminente.
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