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ARTICOLI E COMMENTI

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Appunti sul processo tributario
a cura di Maurizio Villani Avvocato Tributarista in Lecce, componente del Consiglio dell’Unione Nazionale delle Camere degli Avvocati Tributaristi
 
S O M M A R I O
INTRODUZIONE
CAPITOLO PRIMO
Sezione prima – RICORSO ALLA COMMISSIONE PROVINCIALE
1. Le parti del processo tributario
2. Gli atti impugnabili
3. Competenza territoriale delle Commissioni tributarie
4. Gli elementi essenziali del ricorso
5. Come presentare ricorso e a chi?
6. Termini per la proposizione del ricorso
7. Costituzione in giudizio
8. Assistenza tecnica
9. Costituzione in giudizio parte resistente
10. Costituzione tardiva
11. La sospensione dell’atto impugnato
12. La trattazione del ricorso
13. Deposito di documenti e di memorie
14. Discussione in pubblica udienza
15. Decisione in camera di consiglio
16. Contenuto della sentenza
Sezione seconda – ISTRUZIONE PROBATORIA
1. Poteri istruttori delle Commissioni tributarie
Sezione terza – LE VICENDE “ANORMALI DEL PROCESSO”: SOSPENSIONE, INTERRUZIONE ED ESTINZIONE
1. La sospensione del processo
2. L’interruzione del processo
3. L’estinzione del processo:
a) l’estinzione del giudizio per rinuncia al ricorso
b) l’estinzione del giudizio per inattività delle parti
c) l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere
CAPITOLO SECONDO
LE IMPUGNAZIONI
Sezione prima – APPELLO ALLA COMMISSIONE REGIONALE
1. Premessa
2. Legittimazione ad appellare degli Uffici finanziari
3. Conseguenze in caso di difetto di autorizzazione
4. Requisiti dell’appello
5. Appello incidentale
6. Divieto dello ius novorum
7. Eccezioni proponibili per la prima volta in appello
8. Divieto di introduzione di nuove prove in appello
Sezione seconda – DISCIPLINA DELLA TUTELA CAUTELARE NEL PROCESSO TRIBUTARIO E ALLA ESECUZIONE DELLE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE
Sezione terza – RICORSO PER CASSAZIONE
Sezione quarta – RICORSO PER REVOCAZIONE
1. Premessa
2. I motivi della revocazione
3. Organo competente
4. Proposizione del ricorso e suo contenuto
5. Termini per ricorrere
6. Svolgimento del giudizio e decisione
CAPITOLO TERZO
GIUDIZIO DI “OTTEMPERANZA”
1. Premessa
2. Contenuto del ricorso
3. Costituzione dell’Ufficio
4. Procedimento
5. Nomina del commissario ad acta
6. Compiti del Commissario ad acta
7. Chiusura del procedimento
8. Finalità del giudizio di ottemperanza
CAPITOLO QUARTO
CASI PARTICOLARI
1. Novita’. Ingiunzioni fiscali ai giudici tributari
2. Il notaio non può chiedere il rimborso dell’imposta di registro
versata in più
3. Controversie tra soggetto attivo e soggetto passivo della rivalsa.
Devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario.
4. Accertamento notificato al curatore.
Riferimenti legislativi

INTRODUZIONE
Il processo è una sequenza di atti, in vista di una decisione finale, caratterizzata dal contraddittorio tra le parti.
Il contenzioso tributario, già regolato dal D.P.R. n. 536/1972, è stato oggetto di riforma culminata con l’emanazione dei decreti legislativi nn. 545 e 546 del 31 dicembre 1992 (G.U. n. 9 del 13/01/1993 – S.O.), entrati in vigore il 1° aprile 1996, recanti disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della Legge n. 413 del 30/12/1991 secondo criteri coerenti con i principi stabiliti negli artt. 108 e 113 della Carta fondamentale. Ora la giurisdizione tributaria è esercitata dalle Commissioni tributarie Provinciali e Regionali.
Il D.L. n. 203 del 30/09/2005, convertito con modificazioni dalla Legge n. 248 del 02/12/2005, c.d. Collegato alla Legge Finanziaria 2006, ed in particolare l’art. 3-bis, rubricato “Disposizioni in materia di giustizia tributaria”, ha introdotto alcune significative modifiche nel rito tributario, con decorrenza 03/12/2005.
Il Legislatore è intervenuto sia sul D. Lgs. n. 545/92, che disciplina l’organizzazione della giustizia tributaria, sia sul D. Lgs. n. 546/92, che regolamenta il processo vero e proprio.
Per quel che concerne il D. Lgs. n. 545/92, tra le novità da segnalare si evidenzia come la nuova norma precisi che la nomina alla funzione di giudici tributari non costituisce rapporto di pubblico impiego; è previsto, altresì, che i magistrati debbano lasciare l’incarico a 75 anni ed è inoltre stabilito un divieto di assegnazione per più di cinque anni consecutivi alla stessa Sezione della medesima Commissione.
Tale ultima disposizione, che modifica la precedente formulazione della norma, consente a tutti quei giudici tributari che l’01/04/2006 avrebbero dovuto cambiare Commissione per il compimento del decimo anno di mandato di continuare nella medesima Commissione, passando semplicemente ad altra Sezione.
Il nuovo art. 11, D. Lgs. n. 545/92 prevede, altresì, che la vacanza dei posti di Presidente, di Presidente di Sezione, di Vice Presidente e di Giudice è annunciata dal Consiglio di Presidenza e portata a conoscenza di tutti i Giudici in servizio, a prescindere dalle funzioni svolte, con indicazione del termine entro il quale deve essere presentata domanda per l’incarico.
La scelta viene poi fatta dal Consiglio di Presidenza.
Per quel che concerne il rito tributario, le modifiche riguardano:
- la giurisdizione tributaria (art. 2);
- i poteri istruttori del giudice (art. 7);
- l’assistenza tecnica (art. 12);
- le modalità di costituzione in giudizio del ricorrente (art. 22) e quelle di proposizione dell’appello (art. 53).
Oggetto della giurisdizione tributaria sono i tributi elencati all’art. 2 del D. Lgs. n. 546/1992: innanzitutto l’IRPEF, l’IRPEG e l’ILOR, definite come imposte sui redditi, nonché altre imposte di minore importanza dette “imposte sostitutive”, poi le principali imposte indirette quali IVA e INVIM, imposta di registro, l’imposta sulle successioni e donazioni, le imposte ipotecarie e catastali ed altre.
Alle Commissioni è attribuita, altresì, la competenza a giudicare su varie controversie di natura catastale come quelle concernenti, ad esempio, l’intestazione, la delimitazione, l’estensione, il classamento dei terreni e l’attribuzione della rendita.
Già con la novella legislativa dettata dall’art. 12, L. n. 448 del 28/12/2001, il Legislatore ampliò – con decorrenza dall’01/01/2002 – l’oggetto della giurisdizione tributaria a tutte le controversie concernenti “tributi di ogni genere e specie”, compresi quelli regionali, provinciali e comunali, confermando, quindi, il favor legislativo verso l’allargamento e l’autonomia della giurisdizione tributaria a scapito di quella ordinaria ed amministrativa.
Il Collegato alla Legge Finanziaria 2006 è nuovamente intervenuto sull’art. 2, D. Lgs. n. 546/92 ed ha rafforzato tale impostazione aggiungendo, al primo comma, dopo le parole “tributi di ogni genere e specie” la locuzione “comunque denominati”.
Ne consegue che prescindendo, quindi, dal nomen iuris utilizzato, tutto ciò che è possibile ricomprendere nella nozione di tributi è da ricondursi alla giurisdizione tributaria.
E’ stato, altresì, modificato il secondo comma, in cui è stato aggiunto un periodo, precisando che “appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’art. 63 del D. Lgs. n. 446 del 15/12/1997, e successive modificazioni, e del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani, nonché le controversie attinenti l’imposta o il canone comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni”.
Invero l’apparato normativo del processo tributario contiene un’ampia costruzione tecnica basata su disposizioni di rinvio. A tal proposito si fa riferimento all’art. 1, secondo comma, D. Lgs. n. 546/92, il quale dispone che i “giudici tributari applicano le norme del presente decreto e per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.
Si tratta di un rinvio ampio, assoggettato alla doppia condizione della mancata regolamentazione e della compatibilità. In tal modo il legislatore sembra avere considerazione della esigenza di completezza e coerenza che devono caratterizzare una disciplina legislativa.

CAPITOLO PRIMO.
RICORSO ALLA COMMISSIONE PROVINCIALE

1. Le parti del processo tributario
Con l’art. 10 D. Lgs. n. 546/92, il legislatore ha inteso individuare i soggetti aventi la capacità di essere parte nel processo tributario. Essi sono il ricorrente e il resistente.
Il difetto di legittimazione è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio (c.d legitimatio ad causam).
La norma considera il ricorrente, che costituisce la parte attiva del processo, in quanto titolare dell’azione o legittimato alla impugnazione.
La figura del ricorrente coincide, il più delle volte, con quella del contribuente, ossia con quel soggetto debitore del tributo, sia che egli agisca contro un atto dell’Ufficio sia che agisca per il rimborso di somme pagate senza che sia intervenuto un atto.
In ordine al soggetto passivo del processo tributario, si tratta di quei soggetti ed uffici che possono assumere il ruolo di parte convenuta davanti alle Commissioni per aver emesso l’atto impugnato o non aver emesso l’atto richiesto. Essi possono essere:
- un Ufficio del Ministero delle Finanze;
- un ente locale;
- il concessionario del servizio di riscossione.
A questi si aggiungono le Agenzie fiscali, enti pubblici dotati di personalità giuridica, competenti a riscuotere le entrate erariali, istituite con D. Lgs. n. 300 del 30/07/1999.
Il concessionario non è parte necessaria di tutti i procedimenti contenziosi aventi per oggetto l’avviso di mora o la cartella di pagamento.
Il concessionario assurge a parte necessaria del giudizio tributario soltanto quando l’azione del contribuente investa censure ad esso direttamente addebitabile.
In altri termini, il concessionario è parte in senso sostanziale del nuovo processo e pertanto la domanda deve essere, a pena d’inammissibilità del ricorso, necessariamente proposta nei suoi confronti se il ricorrente deduca errori imputabili al concessionario e non contesti
il merito della controversia avente per oggetto la cartella o l’avviso (es. difetto di notificazione dell’avviso di mora, errata compilazione o intestazione della cartella).
Occorre prestare attenzione alla corretta intestazione del ricorso. Il ricorso proposto avverso un soggetto estraneo alla lite può determinare la condanna alle spese processuali e l’inammissibilità del ricorso.

2. Gli atti impugnabili (art. 19 D. Lgs. n. 546/92)
Gli atti contro i quali è possibile ricorrere sono:
- l’avviso di accertamento;
- l’avviso di liquidazione;
- il provvedimento che irroga le sanzioni;
- il ruolo e la cartella di pagamento;
- l’avviso di mora;
- gli atti relativi ad alcune operazioni catastali.
Giurisprudenza. Per l’imposta di registro su trasferimenti di immobili sprovvisti di rendita catastale, occorre considerare che gli atti di attribuzione della stessa rendita assumono natura costitutiva e non meramente dichiarativa.
In questo senso, la rendita non retroagisce rispetto all’anno in cui viene attribuita (Cass., sent. n. 12156 del 09/06/2005).
- il rifiuto, espresso o tacito, alla restituzione di tributi, sanzioni, interessi o altri accessori non dovuti;
- i provvedimenti che negano la spettanza di agevolazioni nonché i provvedimenti di rigetto delle domande di definizione agevolata dei rapporti tributari;
- ogni altro atto espressamente indicato dalla legge come autonomamente impugnabile.
Giurisprudenza. Compete al giudice tributario individuare il soggetto tenuto al versamento dell’imposta. Le SS. UU. della Corte di Cassazione, sent. n. 7792 del 15/04/2005, nel ribadire che la giurisdizione tributaria ha per oggetto le controversie riguardanti sia l’”an” che il “quantum debeatur” e, pertanto, non è dato distinguere fra controversia concernente l’imposta, che deve essere decisa dal giudice tributario, e controversia intesa ad individuare il soggetto tenuto al versamento del tributo, da ricomprendere nella giurisdizione del giudice ordinario. Infatti, l’individuazione dell’obbligato attiene proprio alla verifica dell’”an” e quindi al merito della controversia; pertanto tale accertamento non può essere effettuato nell’ambito del procedimento tributario di impugnazione dell’atto impositivo, con effetti che si possono riverberare anche sul “quantum”. Nel caso di specie, infatti, la qualità di erede con beneficio d’inventario comportava che la responsabilità per il debito d’imposta doveva essere limitata entro il valore dei beni pervenuti.
Diritti camerali. Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con sentenza n. 13549 del 24/06/2005 hanno chiarito che il diritto di iscrizione annuale in albi e registri delle Camere di Commercio è un tributo e la competenza a decidere, in caso di contestazione, spetta alle Commissioni Tributarie. Si è escluso, altresì, che il diritto camerale possa rientrare nella nozione di tributo locale, in quanto la legge riserva questa denominazione solo ai tributi amministrati dagli enti pubblici territoriali. Per questi enti, infatti, assume rilievo costitutivo il territorio, “mentre la circoscrizione territoriale, nella quale le Camere di Commercio operano, costituisce soltanto un limite di competenza”.
Tale principio è stato, altresì, ribadito nella sentenza n. 618 del 13/01/2006 della Corte di Cassazione, nella quale statuisce la legittimità dell’avviso di mora inviato dal concessionario della riscossione al socio di una s.n.c., per mancato pagamento del diritto annuale di iscrizione alla Camera di Commercio, anche se non è preceduto dalla cartella esattoriale.
Provvedimenti di autotutela. In tema di atti impugnabili la Commissione Tributaria Provinciale di Matera, con sentenza n. 45/2004, ha precisato che i provvedimenti di autotutela possono essere impugnati perché attengono non a un danno ipotetico e futuro, ma sono correlati a un danno effettivo e immediato degli interessi del contribuente.
Anche se non compresi nell’elencazione tassativa ex art. 19 del D. Lgs. n. 546/92 – spiegano i giudici – tali provvedimenti sono impugnabili presso le commissioni tributarie in quanto tale elencazione è tutt’altro che tassativa, dovendosi correlare necessariamente con tutti quei provvedimenti emanati dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 546/92 che “per funzione o per natura” possono e devono assimilarsi a quelli elencati nel predetto art. 19.
Dello stesso parere la Comm. Trib. Prov. di Salerno, sent. n. 275/1/05 del 22/02/2005; TAR Emilia-Romagna, sez. I, ord. n. 114 del 28/01/2005.
Il tutto è stato confermato dalla Sentenza della Corte di Cassazione a SS.UU., n. 16776 del 10/08/2005. Ritenute ai tribunali del Fisco: le Sezioni Unite tolgono al giudice ordinario le controversie sorte tra sostituti e sostituiti Nelle controversie scaturite dal rapporto di sostituzione tributaria tra sostituto d’imposta e sostituito il giudice naturale presso cui instaurare la lite è sempre il giudice tributario. In sintesi, questa è la conclusione a cui è pervenuta la Corte di Cassazione a SS. UU. nella sentenza n. 23019 del 29/11/2005.
La questione riguarda una controversia instauratasi fra sostituto d’imposta e sostituito, avente ad oggetto il rimborso delle ritenute fiscali su interessi legali relativi a un credito di lavoro.
Poiché il datore di lavoro aveva versato le relative ritenute ma non effettuato la rivalsa nei confronti del sostituito, quest’ultimo si era visto citato in giudizio dall’ex datore di lavoro per la restituzione delle ritenute versate al Fisco ma relativamente alle quali non era stata operata la rivalsa. In altri termini, si affronta la questione di quale sia, nel caso di specie, l’organo deputato alla risoluzione della lite, vale a dire il giudice ordinario ovvero il giudice tributario.
I Giudici della Suprema Corte hanno evidenziato che per la restituzione delle ritenute versate all’Amministrazione Finanziaria senza l’effettuazione della rivalsa nei confronti del sostituito, il sostituto d’imposta anziché adire il giudice ordinario dovrà proporre ricorso alla giurisdizione tributaria.
Aiuti UE, commissioni non competenti. Il giudice tributario non è competente a decidere sulla legittimità di una cartella di pagamento che contenga l’iscrizione a ruolo di una sanzione amministrativa pecuniaria irrogata con ordinanza-ingiunzione per indebito percepimento di aiuti comunitari. Lo ha stabilito la CTR della Puglia, sent. n. 39/09 del 15/06/2005, che, contrariamente al giudice di primo grado, ha dichiarato il difetto di giurisdizione. Il giudice d’appello ha chiarito che, per delimitare la giurisdizione delle Commissioni, è necessario fare riferimento sia all’art. 2 che all’art. 19 del D. Lgs. n. 546/92.
Non rientra nell’elenco tassativo degli atti impugnabili l’avviso di pagamento.
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 653 del 14/01/2005 ha statuito che “un mero avviso di pagamento, una comunicazione invito con cui si informa il contribuente della debenza del tributo e della possibilità di rivolgersi al Comune per eventuali richieste di chiarimenti”.
In definitiva, l’avviso di pagamento non è altro che una mera comunicazione bonaria, volta unicamente a favorire lo svolgimento del rapporto tributario, non avente carattere impositivo, non rientrante nel novero tassativo degli atti impugnabili ai sensi dell’art. 19 D. Lgs. n. 546/92.
Irrilevante l’esito di altre liti.
La Corte di Cassazione nella sentenza n. 20065 del 17/10/2005 ha statuito che la coobbligata al pagamento dell’imposta può avvalersi del giudicato favorevole emesso in un giudizio promosso da un altro debitore solo se non ha promosso un giudizio separato.
A farne le spese è stata una contribuente che, dopo aver ricevuto un avviso di accertamento relativo al valore finale di un terreno oggetto di compravendita, ha promosso un giudizio chiedendo ai Giudici di uniformarsi alle conclusioni, favorevoli per il debitore, cui erano pervenuti altri collegi in sede contenziosa.
I Giudici di legittimità, nel respingere il ricorso della contribuente, hanno, invece, stabilito che il soggetto coobbligato d’imposta non può invocare a proprio vantaggio la pronuncia emessa nei riguardi di un altro debitore in solido, nel caso in cui egli non sia rimasto inerte, ma abbia promosso un autonomo giudizio che si è concluso in modo a lui sfavorevole.

3. Competenza territoriale delle Commissioni tributarie La competenza per territorio delle Commissioni tributarie Provinciali è individuata in funzione della localizzazione nella provincia degli Uffici dell’Agenzia.
Vale, al riguardo, evidenziare che la competenza per territorio delle Commissioni tributarie Provinciali è, comunque, determinata alla stregua dell’ubicazione dell’Ufficio che ha, ovvero non ha, emanato il provvedimento impugnato.
Ai sensi dell’art. 5 del D. Lgs. n. 546/92, la competenza territoriale delle Commissioni tributarie è inderogabile, conseguentemente non sono applicabili al processo tributario le disposizioni di cui agli artt. 29 e 30 c.p.c. per la fissazione del c.d. “foro dispositivo”.
l difetto di competenza deve essere eccepito nel grado al quale il vizio si riferisce; non è, dunque, proponibile dinanzi alla Commissione tributaria Regionale l’eccezione relativa alla incompetenza della Commissione tributaria Provinciale se quest’ultima non sia già stata investita della medesima questione preliminare.
L’eccezione è, comunque, rilevabile anche d’ufficio, vale a dire dalla Commissione tributaria adita.

4. Gli elementi essenziali del ricorso
Il ricorso deve essere redatto in carta da bollo (€ 14,62 dal 1° giugno 2005) e contenere:
- la Commissione Tributaria a cui ci si rivolge;
- il nome, cognome (o la ragione sociale o la denominazione) del ricorrente (e, quando c’è, del suo legale rappresentante;
- la residenza (o la sede legale o il domicilio eletto);
- il codice fiscale;
- l’Ufficio o l’ente locale o il concessionario della riscossione nei cui confronti è proposto;
- gli estremi dell’atto impugnato;
- l’oggetto della domanda (c.d. petitum);
i motivi di fatto e di diritto atti a provare la sua fondatezza;
- la sottoscrizione del ricorrente;
- la sottoscrizione del difensore, quando è presente, con l’indicazione dell’incarico conferito.
La mancata indicazione di uno o più elementi sopra indicati determina l’inammissibilità del ricorso.
Tuttavia, non può essere dichiarato inammissibile il ricorso che manca dell’indicazione del solo codice fiscale.

5. Come presentare il ricorso e a chi?
Il contribuente deve:
- intestare il ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale (in bollo) nella cui circoscrizione territoriale ha sede l’Ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate competente in luogo del proprio domicilio fiscale; e successivamente, - notificare, ex art. 20 D. Lgs. n. 546/92, il ricorso all’Ufficio locale competente facendolo pervenire, alternativamente:
1) mediante spedizione diretta da parte del contribuente del ricorso a mezzo posta, in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento. A tal proposito, il secondo comma dell’art. 20 precisa che, in caso di opzione per tale forma di presentazione dell’impugnazione, il ricorso s’intende proposto al momento della sua spedizione;
2) tramite l’Ufficiale giudiziario, ai sensi dell’art. 137 c.p.c.. Nel caso de quo, la notifica del ricorso si perfeziona per il notificante con la consegna dell’atto all’Ufficiale giudiziario;
3) consegnandolo all’impiegato addetto all’Ufficio, facendosi rilasciare la relativa ricevuta.
Ne consegue, che il ricorso si considera temporalmente proposto il giorno in cui:
- ne viene effettuata la spedizione a mezzo posta (fa fede il timbro dell’Ufficio postale accettante);
- l’Ufficiale giudiziario ha consegnato l’atto all’Ufficio (come attestato nella relazione di notifica posta in calce al ricorso);
- il ricorso è stato consegnato direttamente all’Ufficio dal ricorrente, ovvero da persona da esso pur informalmente incaricata (in tal caso farà fede la data riportata sulla ricevuta rilasciata dall’Ufficio).
Giurisprudenza. Ricorso per nullità della notifica.
La Corte di Cassazione, Sezione tributaria, nella sentenza n. 18420 del 16/09/2005, ha statuito che vige il principio della sanatoria della nullità dell’atto se, in caso di notifica nulla ma non inesistente, il destinatario impugna l’atto notificato, operando il principio del raggiungimento dello scopo.
Nel caso sottoposto al vaglio della Corte di Cassazione, veniva verificata l’impossibilità di notificare l’atto nella sede legale di una società e, quindi, si provvedeva ad effettuare il deposito presso la casa Comunale ed invio di raccomandata all’interessato.
In questo caso, è consigliabile che il difensore di fiducia valuti se vi sono le condizioni per proporre ricorso.
Giurisprudenza. Proposizione di ricorso cumulativo La Corte di Cassazione, Sezione V, con la sentenza n. 19666 del 01/10/2004, ha stabilito che, in tema di contenzioso tributario, è ammissibile la proposizione di un unico ricorso cumulativo avverso più atti di accertamento, dovendo ritenersi applicabile nel processo tributario l’art. 104 c.p.c., il quale consente la proposizione contro la stessa parte – e quindi la trattazione unitaria – di una pluralità di domande anche non connesse tra loro, con risultato, del resto, analogo a quello ottenuto nel caso di riunione di processi, anche soggettivamente connessi, considerato che, nell’ambito del processo tributario, non si pongono limitazioni riguardanti la competenza per valore.
In questo caso, comunque, è bene evidenziare che, per ragioni di maggiore chiarezza, l’atto cumulativo appare più facile quando si tratta della stessa imposta o di imposte strettamente legate tra loro, mentre diventa di difficile attuazione quando si tratta di imposte diverse, che hanno presupposti, modalità di determinazione e problematiche non coincidenti.
L’intempestività del ricorso, poiché afferente ad un presupposto processuale, è sempre rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio; l’Ufficio, tuttavia, dovrà anteporre tale verifica a qualunque attività processuale al fine di pervenire ad un’immediata declaratoria di inammissibilità del gravame.
Spesso si commettono degli errori nel proporre i ricorsi nei confronti del concessionario della riscossione.
I ricorsi devono essere proposti nei confronti del concessionario della riscossione unicamente se il motivo del ricorso è quello di contestare vizi propri della cartella, come ad esempio errori materiali di compilazione, irregolarità della notifica, attribuibili all’attività del concessionario e non a quella dell’ufficio in sede di formazione del ruolo.
In tutti i casi, invece, in cui il contribuente vuole contestare il merito della richiesta, il ricorso deve essere presentato nei confronti dell’Ufficio impositore. Ad esempio agli Uffici finanziari per quanto riguarda i tributi erariali, il Comune per la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, c.d. TARSU.

6. Termini per la proposizione del ricorso
L’art. 21 del decreto legislativo sopra citato sancisce che “il ricorso deve essere proposto a pena di inammissibilità entro 60 giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato”. In altri termini, la norma in commento commina la “sanzione” della inammissibilità del ricorso ove questo venga proposto oltre il termine di 60 giorni e, dal punto di vista sostanziale produce la definitività dell’atto impugnato.

7. Costituzione in giudizio
Nei 30 giorni successivi alla proposizione del ricorso il ricorrente, ex art. 22 D. Lgs. n. 546/92, deve “costituirsi in giudizio”.
La costituzione in giudizio si effettua depositando presso la segreteria della Commissione il fascicolo di parte contenente:
- una copia del ricorso insieme alla copia della ricevuta di consegna o spedizione, se la presentazione è avvenuta per consegna diretta o a mezzo posta; o l’originale del ricorso notificato a mezzo ufficiale giudiziario;
- l’originale o la fotocopia dell’atto impugnato e dei documenti eventualmente prodotti, elencati nel ricorso;
- la procura ad litem, ove conferita, al difensore.
A tal proposito merita sottolineare come la necessità che l’atto di conferimento dell’incarico sia allegato al fascicolo di parte trae legittimazione dal disposto dell’art. 165 c.p.c., il quale espressamente dispone che la costituzione deve avvenire mediante deposito, non solo dell’atto di citazione, ma anche della procura in originale.
E’ con questo adempimento che viene ad instaurarsi il rapporto con l’organo giudicante.
Solo così il ricorrente diviene ufficialmente ed attivamente parte nel processo.
Giurisprudenza. Procura speciale alle liti in assenza di certificazione di sottoscrizione del difensore.
Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 25032 del 28/11/2005.
La sopra citata sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha, finalmente, risolto il contrasto giurisprudenziale, sulla validità o meno di un atto processuale, nell’ipotesi in cui la procura alle liti, posta in calce o a margine dell’atto stesso, sia priva della sottoscrizione del difensore per autentica di quella del cliente.
Sul punto, la Suprema Corte ha statuito che “l’art. 83, comma 3, c.p.c., che richiede, per la procura speciale alla lite conferita in calce o a margine di determinati atti, la certificazione da parte del difensore dell’autografia della sottoscrizione del conferente, è osservato sia quando la firma del difensore si trovi subito dopo detta sottoscrizione, con o senza apposite diciture, sia quando tale firma del difensore sia apposta in chiusura del testo del documento nel quale il mandato si inserisce”.
In altri termini, secondo la Suprema Corte la sottoscrizione dell’atto processuale per il quale la procura è stata conferita e nel cui ambito è stato collocato lo stesso mandato (in calce o a margine) è reputata sufficiente, poiché il difensore, assumendosi la paternità dell’atto, certifica implicitamente la sottoscrizione del proprio assistito, che gli ha conferito il mandato per lo stesso.
Infatti, secondo la Corte di Cassazione, “la certificazione della sottoscrizione del conferente la procura non è autenticazione in senso proprio, quale quella effettuata secondo le previsioni dell’art. 2703 c.c. dal notaio o da un altro pubblico ufficiale all’uopo autorizzato, ed usualmente viene definita come autenticazione minore, avendo soltanto la funzione di attestare l’appartenenza della sottoscrizione ad una determinata persona”.
Tale principio salva in extremis tutti quei difensori, ai quali spettava il non certo facile compito di spiegare ai clienti che “la causa è persa” per una firma dimenticata.
NOVITA’! In merito alla costituzione in giudizio del ricorrente, la novella legislativa prevede la possibilità di utilizzo del sistema postale in aggiunta alla consolidata modalità di deposito brevi manu.
Pertanto, la nuova formulazione dell’art. 22, D. Lgs. n. 546/92 prevede che il ricorrente, nel rituale termine di 30 giorni dalla proposizione del ricorso, a pena di inammissibilità, provveda al deposito del ricorso nella segreteria della Commissione tributaria adita ovvero alla sua trasmissione “a mezzo posta, in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento”.
Sul punto, in passato, in assenza di un preciso riferimento normativo, parte della dottrina e della giurisprudenza di merito avevano sostenuto che la costituzione in giudizio dovesse avvenire, a pena di inammissibilità, esclusivamente con la consegna brevi manu, escludendo la possibilità di fruire del servizio postale.
Successivamente, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione (sent. n. 8829 del 28/06/2001) aveva dichiarato inammissibile la costituzione in giudizio del ricorrente effettuata mediante la spedizione del ricorso per mezzo del servizio postale, a nulla rilevando la data in cui l’atto fosse pervenuto in Commissione; ciò in quanto si privilegiava la modalità (deposito) piuttosto che il rispetto del termine previsto dalla legge.
A porre fine alla vexata quaestio era intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 520 del 2002 che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, in relazione agli artt. 3, 24, 77 e 97 della Costituzione, l’art. 22, co. 1 e 2, nella parte in cui non consentiva, per il deposito degli atti ai fini della costituzione in giudizio, l’utilizzo del servizio postale.
E’ evidente che con tale intervento il Legislatore ha posto fine a tutti i dubbi interpretativi, lasciando però aperta la questione del termine, non avendo sul punto precisato se, in caso di deposito a mezzo posta, faccia fede la data di spedizione ovvero quella di ricezione da parte della Commissione.
Sul punto si ritiene, analogamente a quanto avviene in tutte le circostanze in cui nel rito tributario si utilizza il sistema postale, anche per il deposito possa far fede la data di spedizione.
La prudenza, allo stato, consiglia comunque di far pervenire l’atto presso la Commissione entro lo spirare del termine.
Giurisprudenza: Con la sentenza n. 520 del 2002 la Corte Costituzionale ha ampliato le modalità di deposito nel caso di costituzione in giudizio. Il deposito, oltre che a mano, può essere effettuato anche tramite servizio postale.
Si segnala, altresì, la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. trib. n. 20262 del 14/10/2004, secondo la quale “il deposito del ricorso tributario notificato per posta deve essere effettuato entro 30 giorni dalla spedizione postale del documento incorporante il ricorso………”. Continua osservando che la data di spedizione assume rilevanza “al fine di computare il termine per compiere il primo, ulteriore adempimento necessario per completare l’incoazione del processo, cioè il deposito presso il giudice”.
I giudici di legittimità, in base ad un consolidato quanto recente orientamento della stessa Corte, hanno ritenuto che “nel caso di notificazione di atti a mezzo posta, ove il destinatario dell’atto non sia costituito”, il notificante ha l’onere di produrre l’avviso di accertamento, o tempestivamente con il deposito del ricorso in cancelleria o, anche successivamente, purchè prima che la causa sia posta in decisione. L’inosservanza di tale onere “rende inesistente la notifica, in quanto incide sui requisiti per il perfezionamento del procedimento notificatorio”.
N.B.: Si tratta di un adempimento di fondamentale importanza in quanto la sua omissione o anche, la semplice tardività comporta l’inammissibilità del ricorso.
Giurisprudenza. Copia depositata in Commissione tributaria priva di attestazione di conformità. L’art. 22 D. Lgs. n. 546/92 dichiara inammissibile il ricorso ove la copia depositata nella segreteria non sia conforme a quella consegnata alla controparte. Dunque assume rilevanza il profilo sostanziale (conformità o meno dei due testi); mentre l’asserzione di conformità apposta dal difensore o dalla parte costituisce solo uno strumento per assicurare la conformità sostanziale (Cass., sez. trib., sent. n. 3562 del 13/01/2005, dep. Il 22/01/2005).
Ricorsi fiscali, valide le fotocopie. Corte di Cassazione, sentenza n. 21170 del 31/10/2005. La confusione tra fotocopia e originale non può far saltare l’intero processo fiscale, così rovesciando la prescrizione stabilita dall’art. 22 del D. Lgs. n. 546/92. In altri termini, quando il difensore della parte privata si sbagli ed inverta le notifiche, consegnando l’originale dell’istanza alla segreteria della Commissione Tributaria invece che al Ministero, l’errore può essere sanato d’ufficio, attraverso una lettura “costituzionalmente orientata” delle norme sul contenzioso tributario. Al Giudice resta sempre la possibilità di ordinare alle parti di esibire tutti i documenti, in modo da poter verificare l’effettiva esistenza e validità dell’atto che dà l’impulso al processo.
Secondo i Giudici di legittimità, rovesciare la procedura indicata dall’art. 22 D. Lgs. n. 546/92, sul contenzioso tributario rappresenta una irregolarità non sufficiente a determinare il rigetto del ricorso di parte.
L’inammissibilità, secondo i Giudici, si può profilare solo nel caso in cui manchi materialmente la sottoscrizione del professionista in calce all’atto, non quando questa sia presente per relationem a un originale consegnato altrove.
Nella sentenza n. 21170 del 31/10/2005, i consiglieri della V Sezione civile stabiliscono, così, un importante principio a favore dei cittadini che rischiano di essere penalizzati dalla distrazione, o in alcuni casi dalla non perfetta conoscenza del decreto legislativo n. 546/92, imputabile ai professionisti abilitati ad assistere i contribuenti davanti ai Giudici tributari.
In questo caso la Suprema Corte ha manifestato una particolare sensibilità alla “tutela delle parti in posizione di parità”, puntando ad evitare “irragionevoli sanzioni di inammissibilità”.
La costituzione del ricorrente deve avvenire a mezzo del difensore abilitato, salvo nelle limitate ipotesi previste dal legislatore tributario in cui si permette alla parte di stare in giudizio personalmente.
Per le controversie aventi ad oggetto tributi di valore superiore a € 2.582,28 è indispensabile l’assistenza di un difensore abilitato.
Per valore s’intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni. Se si tratta solo di sanzioni, il valore è dato dalla somma di queste.
Costituzione in giudizio enti locali.
Il sindaco deve essere autorizzato a stare in giudizio con delibera della Giunta.
La Cassazione, con sent. n. 7506 del 12/04/2005, ha stabilito che l’autorizzazione della Giunta alla costituzione in giudizio non consente al sindaco di poter definire la lite con la conciliazione. In questo caso, secondo la Cassazione, si tratta di un atto per il quale sono necessarie speciali procure o particolari autorizzazioni.
Quando l’autorizzazione viene concessa senza alcuna limitazione, nelle forme prescritte, non deve essere rinnovata nei successivi gradi del giudizio, dovendosi intendere conferita fino alla definizione della lite (Cass., sent. n. 5255 del 15/03/2004). Tuttavia, la Cassazione (sent. n. 14220 del 23/07/2004) ha poi modificato il principio in base al quale era sufficiente un’unica autorizzazione ed ha stabilito che l’autorizzazione rilasciata al Sindaco dalla Giunta con riguardo a procedimenti di merito non lo abilita a ricorrere o a resistere in Cassazione.
Sempre in tema di enti locali la Cassazione a Sezioni Unite, in una sua recentissima pronuncia (sent., n. 12868 del 16/06/2005), ha statuito che lo Statuto comunale “ha valore di norma fondamentale dell’organizzazione dell’ente locale, che non trova altri limiti che quelli imposti da principi espressamente connotati da inderogabilità”. In altri termini, la legge dello Stato, nell’ambito organizzativo dei Comuni, non costituisce più, secondo la sentenza, “un limite invalicabile all’attività statutaria”, se non nei principi inderogabili.
Tutte le controversie tributarie possono essere conciliate purchè si trovino nella fase processuale del giudizio di primo grado, cioè pendenti innanzi alle Commissioni tributarie Provinciali.
NOVITA’! Enti in giudizio con il funzionario. L’art. 3-bis della Legge n. 88 del 31/05/2005 modifica l’art. 11, comma terzo, della riforma del processo tributario (D. Lgs. n. 546/92). Tale disposizione attribuiva la capacità a stare in giudizio nei processi tributari all’organo di rappresentanza previsto dall’ordinamento dell’ente; mentre, nella nuova formulazione stabilisce che l’ente cui è stato proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell’Ufficio tributi e, se privo di figure dirigenziali, mediante il titolare di posizione organizzativa in cui è collocato l’ufficio.
Questa nuova regola è estesa ai giudizi in corso al 1° giugno 2005, data di entrata in vigore delle nuove disposizioni.
Giurisprudenza.
Il funzionario può assistere il Comune in giudizio tributario.
Il funzionario può assistere nel giudizio tributario il Comune ed è anche legittimato a firmare tutti gli atti occorrenti per la difesa dell’ente, ovvero la costituzione in giudizio ed il ricorso in appello.
Il tutto è stato confermato dalla Corte di Cassazione con la sent. n. 18419 del 16/09/2005 che ha interpretato l’art. 3-bis della L. n. 88/2005 di conversione del D. L. n. 44/2005, in base al quale oltre all’assistenza, si riconosce al dirigente dell’Ufficio tributi anche la rappresentanza dell’ente.
Gli enti che non possiedono tale figura, possono ricorrere al titolare di posizione organizzativa.
Comuni, la difesa “irrituale” non rende nulla la decisione.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 13231 del 20/06/2005 ha stabilito che, nel processo tributario, il laureato praticante avvocato può assistere il Comune in quanto l’obbligo di un difensore abilitato necessita solo per la parte privata.
Solo le parti che non siano l’Ufficio del Ministero delle Finanze o l’ente locale, come previsto dall’art. 12 D. Lgs. n. 546/92 devono stare in giudizio nel processo tributario per mezzo di difensore abilitato. Diversamente, il praticante avvocato può assistere l’ente pubblico nella causa.
In altri termini, la Suprema Corte ha escluso che la sentenza di secondo grado sia inficiata da invalidità, visto che l’assistenza legale da parte del praticante è stata resa non nei confronti della parte privata ma del Comune.
Quindi, per il giudice di legittimità, a parte le sanzioni disciplinari che potevano essere irrogate al professionista per aver svolto un’attività non consentita, la situazione che si era determinata “poteva al più influire sull’entità degli onorari e delle spese liquidabili a favore dell’ente”.
In effetti, nel processo tributario solo le parti private non possono stare in giudizio se non con l’assistenza di un professionista iscritto ad apposito Albo, tranne che per le controversie di modesto valore.
Con Ministeriale 01/02/2006, n. 7297 del Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento per le Politiche fiscali, Ufficio Amministrazione delle Risorse – sono state impartite agli Uffici di Segreteria delle Commissioni Tributarie disposizioni in ordine all’esigenza di una nuova modalità di deposito del ricorso e degli altri atti mediante l’utilizzo di apposita nota. Tale innovazione consente l’immediata acquisizione del ricorso e l’attribuzione del numero di protocollo (R.G.R.), nonché il collegamento con gli atti processuali successivi, si da avere una puntuale e tempestiva conoscenza dei termini e dello stato della vertenza.
La nota di deposito è costituita da un modello da consegnare (o spedire) alla Commissione Tributaria, unitamente al deposito del ricorso e di ogni altro atto che s’intenda depositare, quali controdeduzioni, memorie, istanze, reclami, ecc.. La nota di deposito va compilata da ogni parte in giudizio (contribuente, Ufficio o ente impositore, interveniente - V.ALLEGATO).
L’estensione a “regime” della nota di deposito verrà effettuata gradualmente per Regioni, secondo quanto previsto dal calendario ministeriale, a partire dal 13 febbraio 2006.
Regioni Uffici Data di avvio Toscana e Umbria 13 prov. e 2 reg. 13 febbraio Val d'Aosta, Piemonte e Liguria 13 prov. e 3 reg. 20 febbraio Lombardia e Trentino Alto Adige 11 prov., 2 di 1° grado, 2 di 2° grado e 1 reg. 27 febbraio Veneto e Friuli Venezia Giulia 11 prov. e 2 reg. 6 marzo Emilia Romagna e Marche 13 prov. e 2 reg. 13 marzo Abruzzo, Molise e Puglia 11 prov. e 3 reg. 20 marzo Campania, Basilicata e Calabria 12 prov. e 3 reg. 27 marzo Sicilia 9 prov. e 1 reg. 3 aprile Lazio e Sardegna 9 prov. e 2 reg 11 aprile N.B.: La mancata compilazione, l’eventuale ritardo, ovvero l’ erronea compilazione della nota di deposito non comporta la dichiarazione di improcedibilità, in quanto tale adempimento riguarda esclusivamente l’attività amministrativa delle Commissioni tributarie.

8. Assistenza tecnica
A norma dell’art. 12 sono abilitati a prestare assistenza tecnica dinanzi alle Commissioni Tributarie, se iscritti nei relativi albi professionali:
- gli avvocati;
- i dottori commercialisti;
- i ragionieri e periti commerciali.
Sono, altresì, abilitati:
- i consulenti del lavoro, per le materie concernenti le ritenute alla fonte sui redditi di lavoro dipendente ed assimilati e gli obblighi di sostituto d’imposta ad esse relativi;
- gli ingegneri, gli architetti, i geometri, i periti edili, i dottori agronomi, gli agrotecnici e i periti agrari, per le materie concernenti estensione, classamento dei terreni e ripartizione dell’estimo fra i possessori di una stessa particella, consistenza, classamento delle singole unità immobiliari urbane e attribuzione della rendita catastale;
- i periti e gli esperti in tributi in possesso di determinati requisiti;
- i funzionari dell’amministrazione finanziaria e gli ufficiali della guardia di finanza a riposo dopo venti anni di servizio;
- i funzionari abilitati delle associazioni di categoria;
- i dipendenti delle imprese per le controversie che le riguardano.
Il primo periodo del comma 2 dell’art. 12 è stato oggetto di una significativa modifica introdotta dal Collegato alla Finanziaria 2006, nella parte in cui ha esteso la difesa a competenza piena anche ai consulenti del lavoro, unitamente a dottori commercialisti, ragionieri ed avvocati, purchè iscritti nei relativi Albi professionali.
Ai consulenti del lavoro, sin dall’entrata in vigore del D. Lgs. n. 546/92, come sopra già evidenziato, era stata riservata la possibilità di difesa soltanto per le controversie aventi ad oggetto le ritenute alla fonte sui redditi di lavoro dipendente ed assimilati e gli obblighi di sostituto di imposta relativi alle ritenute medesime; a fronte della modifica legislativa, la suddetta limitazione è stata eliminata.
Nel testo novellato è stato, altresì, soppresso il richiamo ai procuratori legali.
In tale sede, va rilevato che la nuova formulazione non ha recepito le modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 139/2005 con il quale è stato istituito il nuovo Albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili, c.d. Albo Unico.
Ai non abbienti è assicurata l’assistenza gratuita; alla Commissione per il gratuito patrocinio, istituita presso ogni Commissione tributaria, è affidata la verifica del possesso delle condizioni richieste.
Giurisprudenza. Inammissibilità solo dopo l’avviso. Il giudice deve ordinare alla parte privata di farsi assistere. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate su un contrasto interpretativo formatosi all’interno della Sezione Tributaria, stabilendo che nelle controversie davanti alle Commissioni Tributarie per somme superiori a € 2.582,28, la Commissione è tenuta a disporre che il contribuente che ne sia privo si munisca dell’assistenza tecnica di un difensore.
L’inammissibilità del ricorso deve essere dichiarata soltanto quando il contribuente non si sia munito dell’assistenza del difensore nonostante l’ordine impartito dal giudice (Cass., Sez. trib., SS.UU., 02/12/2004, n. 22601, sent. n. 17159/2005, sent. n. 27035 del 07/12/2005 ed anche Cass., Sez. trib., 08/02/2005, n. 2493).

9. Costituzione in giudizio parte resistente
La costituzione in giudizio della parte resistente deve essere effettuata entro il termine di 60 giorni da quello in cui il ricorso gli è stato notificato, consegnato o spedito, la quale deve presentare le proprie controdeduzioni. Anche per tale termine vale, come per gli altri termini processuali, la sospensione per il periodo feriale.
Questo è il modo in cui il ricorrente viene messo in condizioni di conoscere la strategia difensiva adottata dalla controparte.
Nelle controdeduzioni, di solito, la parte resistente espone le sue difese e prende posizione sui motivi di ricorso e, nello stesso tempo, indica le prove di cui intende avvalersi e propone eventuali eccezioni processuali e di merito.
Le controdeduzioni devono essere depositate in numero di copie pari alle parti in giudizio.

0. Costituzione tardiva
La mancata costituzione entro il citato termine di 60 giorni dalla notifica del ricorso, non preclude, tuttavia, la possibilità di una costituzione tardiva della parte resistente che, comunque può essere effettuata entro i seguenti termini:
1) nel caso della trattazione in camera di consiglio, entro il termine previsto per il deposito delle repliche (fino a 5 giorni liberi prima della data della camera di consiglio);
2) nel caso di discussione in pubblica udienza, fino all’inizio della discussione.
L’inerzia della parte resistente non produce, come nel giudizio civile ordinario, la sua contumacia.
Il Ministero delle Finanze con la circolare n. 98/E, del 23 aprile 1996 ha evidenziato la necessità delle tempestiva costituzione in giudizio, rappresentando essa “sicura garanzia di pienezza di difesa, oltre che di speditezza del processo”.
Il processo tributario è un processo prevalentemente documentale. In altri termini non è ammessa la possibilità di avvalersi degli altri mezzi di prova ordinariamente riconosciuti, come ad esempio il giuramento e la prova testimoniale.
Per essere utilizzati nel processo, i documenti devono essere elencati negli atti di parte cui sono allegati (ad es., nel ricorso). O, in alternativa, possono essere prodotti anche separatamente con un’apposita nota, chiamata “Nota di deposito documenti”, da firmare e depositare in segreteria.

11. La sospensione dell’atto impugnato (art. 47 D. Lgs. n. 546/92) Se dall’atto impugnato può derivargli un danno grave ed irreparabile, il ricorrente può chiedere alla commissione provinciale la sospensione della sua esecuzione.
La richiesta motivata può essere inserita nel ricorso o proposta con atto separato. Quando la sospensione è richiesta in materia di sanzioni tributarie non penali:
- il giudice deve necessariamente concederla se il contribuente produce un’idonea garanzia, anche a mezzo fideiussione bancaria o assicurativa;
- può essere proposta istanza anche dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale.
Le condizioni dell’azione cautelare sono:
a) il fumus boni iuris;
b) il periculum in mora.
Ai fini della concessione della sospensione dell’atto impugnato prevista dall’art. 47, deve ritenersi che sussista il requisito del fumus boni iuris quando le argomentazioni sviluppate nel ricorso appaiono giuridicamente rilevanti, e deve ritenersi che sussista il periculum in mora consistente nella fondata possibilità che dall’esecuzione dell’atto impugnato possa derivare al ricorrente un danno grave ed irreparabile quando la situazione finanziaria dell’impresa ricorrente ha consistenti e documentate esposizioni bancarie. Deve ritenersi che il periculum in mora sia insito nell’elevatezza dell’importo in contestazione e nella lunghezza dei tempi per l’eventuale rimborso. I sopra descritti requisiti devono sussistere congiuntamente.
Il legislatore nel processo tributario ha ritenuto che condizione per la sospensione dell’esecuzione dell’atto sia l’esistenza di un danno grave ed irreparabile; non ha ritenuto, come nel c.p.c., che dovesse sussistere anche la caratteristica dell’imminenza del danno.
La sospensione non opera nel caso di controversia riguardante la legittimità di un avviso di irrogazione di sanzioni, in quanto, nel caso de quo, non può configurarsi l’evenienza di un danno “grave ed irreparabile”, perchè la vigente normativa tributaria prevede l’iscrizione a ruolo delle sanzioni soltanto dopo una sentenza non più impugnabile o impugnabile solo con ricorso per Cassazione. Il tutto ai sensi dell’art. 68 del D. Lgs. n. 546/92.
La sospensione è pronunciata mediante ordinanza motivata e non impugnabile.
Nonostante l’autonomia che contraddistingue la fase cautelare da quella di trattazione del merito della causa, la decisione, presa in questa prima, eventuale, fase processuale, generalmente è destinata ad incidere sul convincimento definitivo del Collegio; ciò in quanto il procedimento cautelare presuppone, comunque, la delibazione, pur sommaria, del merito della causa.
Quanto all’efficacia temporale dell’ordinanza cautelare, essa:
- viene meno con l’emissione della decisione della Commissione Tributaria Provinciale;
- in caso di mutamento delle circostanze, può essere revocata o modificata dalla Commissione, su istanza motivata di parte, prima della sentenza conclusiva del primo grado di merito.

12. La trattazione del ricorso
Nell’ambito del giudizio tributario l’avviso di trattazione è disciplinato dall’art. 31 del D. Lgs. n. 546/92, il quale prevede che la segreteria della Commissione dia comunicazione alle sole parti ritualmente costituite almeno trenta giorni liberi prima della data stabilita.
L’avviso di trattazione deve contenere, a pena di nullità, la data (anno, mese, giorno, ora) di trattazione (udienza pubblica o camera di consiglio) per la produzione eventuale in tempo utile di documenti e memorie.
La controversia è trattata di norma in “camera di consiglio” (senza la presenza delle parti);
se una delle parti vuole che il ricorso sia discusso in pubblica udienza deve farne richiesta alla Commissione, così come previsto dall’art. 33, co. 1, del D. Lgs. n. 546/92. Tale richiesta può essere avanzata dalla parte soltanto con un’apposita istanza (presentata su un atto separato o in allegato all’atto introduttivo del giudizio) da depositare nella segreteria e notificare alle altre parti costituite, almeno dieci giorni prima della data fissata per la trattazione.
Nei trenta giorni liberi non si computano il giorno iniziale della ricevuta comunicazione (dies a quo) ma quello finale (dies ad quem), considerato che tra la ricezione della comunicazione e l’udienza di trattazione devono intercorrere trenta giorni interi.
Giurisprudenza. Mancata comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza. L’intempestiva, irregolare o incompleta comunicazione, ove non sanata, determina la nullità del giudizio e della sentenza che lo definisce, attesa l’esplicita violazione del contraddittorio e del diritto di difesa (Corte di Cassazione, Sez. trib., sent. n. 15771 del 27/07/2005 e sent. n. 11014 del 14/07/2003).
La notificazione dell’avviso di udienza, non riuscita nel domicilio eletto per il trasferimento del difensore, non deve essere rinnovata nel nuovo domicilio, reperibile attraverso indagini d’ufficio presso l’Ordine professionale, essendo sufficiente la comunicazione effettuata presso la segreteria della Commissione tributaria.
Infatti, ai sensi dell’art. 17 del D. Lgs. n. 546/92, le notificazioni sono fatte nel domicilio eletto e le variazioni del domicilio hanno effetto dal decimo giorno successivo a quello in cui sia stata notificata alla segreteria della Commissione e alle parti costituite la domanda di variazione, mentre se per l’assoluta incertezza del domicilio la notificazione degli atti non è possibile, questi sono notificati presso la segreteria della Commissione. E’ evidente, pertanto, che qualora il difensore del ricorrente muti la sede del proprio studio professionale senza notificare la variazione alla segreteria della Commissione, lo stesso crea una situazione di assoluta incertezza sul domicilio eletto dal contribuente sì che correttamente la notifica è eseguita presso la segreteria della Commissione (Cass., sez. trib., sent. n. 10089 del 13/05/2005).
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 141/98, ha ritenuto che l’art. 128 c.p.c., il quale dispone la pubblicità dell’udienza a pena di nullità dell’intero procedimento, sia applicabile anche al processo tributario, prevedendo la proponibilità dell’istanza di discussione in pubblica udienza sin dalla presentazione del ricorso.
La Suprema Corte, nella sentenza n. 11269 del 27/01/2001, asserisce che il rifiuto di discutere la causa in pubblica udienza, in presenza di apposita istanza contenuta nell’atto di appello, viola il diritto di difesa e comporta la nullità di tutti gli atti successivi, ivi compresa la sentenza.
La discussione in pubblica udienza garantisce l’esigenza di tutela della parte in ordine a circostanze sopravvenute nel corso del procedimento o in ordine a difesa verso eventuali eccezioni della controparte, mentre la camera di consiglio risponde ad un più rapido funzionamento del processo.
Differenze procedurali tra il processo tributario e il processo civile.
Nel processo civile l’udienza di prima comparizione viene fissata dall’attore e il procedimento civile si esplicita in una serie di udienze, in cui le parti convenute possono costituirsi anche alla prima udienza di comparizione (artt. 171 e 180 c.p.c.). Nel corso del giudizio le parti costituite possono, altresì, depositare note autorizzate e istruttorie (artt. 183 e 184 c.p.c.).
Nel processo tributario non esiste un’udienza di prima comparizione ma una sola udienza la cui data viene fissata dal Presidente della Commissione Tributaria sia in primo grado che in fase di appello ed è nella stessa udienza che la controversia viene trattata e decisa.
La presentazione di memorie illustrative e di replica può essere depositata dalle parti costituite fino a dieci giorni liberi prima della data di trattazione in pubblica udienza; nel caso di trattazione in camera di consiglio il termine si riduce a cinque giorni liberi prima dell’udienza di trattazione.
Il processo tributario è privo della c.d. fase istruttoria.
Uno degli elementi essenziali del ricorso, a pena di inammissibilità, è costituito dai “motivi”, cioè la dettagliata esposizione delle proprie ragioni.
Giurisprudenza. L’importanza di esporre compiutamente tutti i motivi di diritto e di fatto nel ricorso introduttivo è suffragata dalla regola della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), che deve essere osservata anche dai giudici tributari (Cass., sez. trib., sent. n. 11482).
Infatti, a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio, da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove, in forza dei poteri istruttori attribuitigli dall’art. 7 del D. Lgs. n. 546/92 perché tali poteri sono meramente integrativi e non esonerativi dell’onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo tributario, soltanto per sopperire all’impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell’altra parte (Cass., sez. trib., sentt. n. 11462 del 30/05/2005 e n. 10322 del 17/05/2005).
I motivi non possono essere integrati in atti successivi, a meno che l’integrazione sia resa necessaria dal successivo deposito di documenti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione.
Se è stata già fissata l’udienza di trattazione l’interessato deve dichiarare a pena di inammissibilità, non oltre la trattazione in camera di consiglio o la discussione in pubblica udienza, che intende proporre motivi aggiunti.
Dopo questo adempimento, la trattazione o l’udienza devono essere rinviate ad altra data per consentire il deposito della memoria.
L’integrazione dei motivi si effettua mediante un atto che deve avere, per quanto applicabili, i requisiti prescritti per il ricorso.
In materia tributaria, la decadenza dell’Amministrazione Finanziaria dall’esercizio di un potere nei confronti del contribuente, in quanto stabilita in favore e nell’interesse esclusivo del contribuente stesso, in materia di diritti da questo disponibili, non può mai essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma deve essere sempre dedotta dal contribuente in sede giudiziale. Invece, la decadenza del contribuente dall’esercizio di un potere nei confronti dell’A.F., in quanto stabilita in favore di quest’ultima ed attinente a situazioni da questa non disponibili, perché disciplinata da un regime legale non derogabile, rinunciabile e modificabile dalle parti, può essere sempre rilevata anche d’ufficio, persino per la prima volta in appello (Cass., sent. n. 11521 del 21/06/2004).
E’ invece possibile depositare, anche successivamente al ricorso, documenti e memorie illustrative, cioè atti che non ampliano l’ambito della controversia, ma si limitano ad illustrare in maniera più approfondita i motivi già esposti nel ricorso.
Giurisprudenza. Nullità della notificazione dell’avviso di accertamento proposto con la memoria. Si fa presente che è tardiva l’eccezione della notifica dell’avviso di accertamento proposta esclusivamente con la memoria illustrativa di cui all’art. 32 D. Lgs. n. 546/92. La stessa, infatti, non è una necessaria conseguenza della produzione di nuovi documenti esibiti dalla controparte, ma bene può e deve essere proposta con il ricorso introduttivo del giudizio, essendo noto in quel momento il fatto su cui l’eccezione si basa (Cass., sez. trib., sent. n. 13071 del 17/06/2005).
Nel caso di trattazione in camera di consiglio è possibile anche la presentazione di “brevi repliche”, con le quali si propongono ulteriori contestazioni alle argomentazioni esposte nelle memorie.

3. Deposito di documenti e di memorie
Il deposito delle memorie, dei documenti e delle repliche va effettuato entro precisi termini: fino a 20 giorni liberi prima della data di trattazione, per i documenti; fino a 10 giorni liberi prima della data di trattazione, per le memorie; fino a 5 giorni liberi prima della data di trattazione in camera di consiglio per le brevi repliche.
Si tratta certamente di termini perentori. Infatti, la legge di riforma ha stabilito il principio di speditezza e celerità del processo tributario.
Giurisprudenza.
La Suprema Corte (sentt. n. 138 del 09/01/2004 e n. 1771 del 30/01/2004) ha ribadito che, mentre il termine per la costituzione in giudizio del resistente, previsto dall’art. 23 non è perentorio, invece i termini previsti dall’art. 32 sono perentori ed inderogabili. Tale principio è stato ribadito in una sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Lecce, n. 85/1/05, pronunciata il 13/05/2005 e depositata il 09/05/2005.
La spiegazione è molto semplice, perché solo il rispetto di questi ultimi termini, consentendo all’altra parte di contestare e/o replicare, realizza compiutamente il diritto al contraddittorio che rappresenta l’aspetto fondamentale del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Costituzione.
Il principio del contraddittorio si sostanzia nella garanzia, riconosciuta alle parti, di esporre le proprie ragioni al giudice, così da poter influire sulla formazione del suo convincimento e, pertanto, sul provvedimento decisorio di cui subiranno gli effetti.
E’ sempre necessario formulare, nel corso del giudizio, richiesta di condanna della controparte alle spese di lite.
L’art. 15 del D. Lgs. n. 546/92 prevede che la parte soccombente sia condannata a rimborsare le spese di giudizio che sono liquidate con la sentenza. Tuttavia, la Commissione tributaria può dichiarare compensate, in tutto o in parte, le spese processuali quando ritiene che sussistano giusti motivi.
La norma prevede, altresì, che i compensi agli incaricati dell’assistenza tecnica devono essere liquidati sulla base delle rispettive tariffe professionali. Nella liquidazione delle spese a favore dell’ufficio del Ministero dell’Economia, nei casi in cui è assistito dai funzionari della stessa amministrazione, o a favore dell’ente locale, se assistito dai propri dipendenti, si applica la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del 20% degli onorari di avvocato.
Sul punto, la Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 13542 del 23/06/2005, ha affermato che questa valutazione è rimessa al giudice ed è insindacabile in sede di legittimità solo se “enunci motivi palesemente e microscopicamente illogici od erronei, tali da inficiare, per la loro inconsistenza ed erroneità, lo stesso processo formativo della volontà decisionale”.

14. Discussione in pubblica udienza (art. 34 D. Lgs. n. 546/92)
All’udienza di discussione, verificata la regolarità del contraddittorio e la ritualità e tempestività dell’istanza ex art. 33, primo comma, il relatore espone i fatti e le questioni della controversia ed il Presidente ammette le parti presenti alla discussione. L’eventuale omissione della relazione non comporta nullità della decisione.
Per quanto concerne l’ordine degli interventi, ad esporre le proprie difese saranno per primi il ricorrente e gli eventuali altri litisconsorzi che contrastano la pretesa dell’Ufficio, dell’ente locale o del concessionario del servizio di riscossione; poi, seguirà l’illustrazione difensiva del resistente.
Alla pubblica udienza assiste il segretario il quale redige processo verbale.
Il terzo comma dell’art. 34 prevede che la Commissione possa disporre il differimento della discussione ad udienza fissa, su istanza della parte interessata, quando la sua difesa tempestiva, scritta o orale, è resa particolarmente difficile a causa dei documenti prodotti o delle questioni sollevate dalle altri parti.
Una volta che l’istanza di differimento sia stata formulata, anche nella fase delle richieste preliminari e quindi prima della relazione, la Commissione valuterà la ricorrenza dei presupposti e deciderà di conseguenza, in relazione ai documenti prodotti ed alla complessità delle questioni sollevate.
Il procedimento si caratterizza per la previsione di un’unica udienza tendenzialmente destinata ad esaurire l’intera trattazione. La disposizione in commento, unitamente all’art. 35, descrive in rapida successione i due momenti della trattazione e definizione della controversia, stabilendo che la deliberazione del collegio debba avvenire in camera di consiglio immediatamente dopo l’esaurimento della discussione, in difetto di qualsiasi modulo specifico che segni il passaggio dalla fase di trattazione a quella di decisione vera e propria.

15. Decisione in camera di consiglio (art. 35 D. Lgs. n. 546/92)
Una volta terminata la discussione e subito dopo di essa il collegio delibera la decisione in segreto, vale a dire senza la presenza di estranei.
Di tale fase non deve né può farsi alcuna verbalizzazione, contraria, come tale, al segreto camerale, sicchè a tale fase non può e non deve partecipare il segretario.
La norma non contenendo alcuna regola indicativa delle modalità di formazione della deliberazione, è d’obbligo il riferimento all’art. 276 c.p.c. nonché agli artt. 117, 118, 119 disp. att. c.p.c...
Anche nel processo tributario vale il principio dell’immutabilità del giudice, nel senso che la composizione del Collegio che delibera la sentenza deve essere identica a quella innanzi al quale la causa è stata trattata. La violazione di tale regola non provoca l’inesistenza giuridica della sentenza, ma la sua nullità, che può essere fatta valere in sede di appello se dedotta quale motivo di gravame.
Il principio s’intende rispettato “quando il collegio, dopo una prima udienza di discussione, partecipi, in diversa composizione, ad una nuova discussione, assumendo definitivamente la causa in decisione” (in tal senso Corte di Cassazione, Sez. trib. civ., sent. n. 15374 del 05/12/2001 e n. 11269 del 27/08/2001).
Ai sensi dell’art. 654 c.p.p., il quale aveva portata modificativa dell’art. 12 del D.L. n. 429/1982, convertito dalla L. n. 516/1982, poi espressamente abrogato dall’art. 25 del D. Lgs. n. 74/2000, l’efficacia vincolante del giudicato penale non opera nel processo tributario, poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova, come il divieto della prova testimoniale e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Deriva, da quanto precede, pertanto, che l’esistenza di un provvedimento penale, favorevole al contribuente, non impedisce al giudice tributario una valutazione dei fatti conforme alle tesi dell’Amministrazione finanziaria. Anzi, il giudice tributario deve procedere ad un’autonoma valutazione, secondo le regole proprie della distribuzione dell’onere della prova nel giudizio tributario, degli elementi probatori acquisiti nel processo penale, anche qualora ritenga di fondare il proprio convincimento su tali elementi.
A) Contenuto della sentenza (art. 36 D. Lgs n. 546/92)
La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano ed è intestata alla Repubblica italiana.
La sentenza deve contenere:
- l’indicazione della composizione del collegio, delle parti e dei loro difensori se vi sono;
- la concisa esposizione dello svolgimento del processo;
- le richieste delle parti;
- la succinta esposizione dei motivi in fatto e in diritto;
- il dispositivo.
La sentenza deve inoltre contenere la data della deliberazione ed è sottoscritta dal presidente e dall’estensore.
Giurisprudenza. Le sentenze fotocopia affette da nullità totale. La Corte di Cassazione nella sentenza n. 12354 del 10/06/2005 è pervenuta alla conclusione che sono affette da nullità assoluta le sentenze che fondano la loro motivazione su recepimenti del tutto acritici di orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione, poiché in tal modo si rende impossibile l’individuazione sia del thema decidendum sia delle ragioni poste a fondamento del dispositivo. Il giudice deve far proprio il contenuto della sentenza evocata con autonoma e critica valutazione, ancorché con integrale condivisione.

SEZIONE SECONDA
ISTRUZIONE PROBATORIA

Poteri istruttori delle Commissioni Tributarie (art. 7 D. Lgs. n. 546/92)
Le attività istruttorie consentite nel contenzioso tributario sono, oltre alle prove documentali offerte dalle parti, quelle conferite alle Commissioni Tributarie dall’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ovvero:
1) la facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta;
2) il potere di richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza;
3) la facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia;
4) il potere di disporre consulenza tecnica.Poteri questi che la Commissione deve esercitare in via integrativa e non sostitutiva della carente attività probatoria delle parti.
L’art. 7, primo comma, sostanzialmente riproduttivo dell’art. 35 del D.P.R. n. 636 del 1972, attribuisce alle Commissioni Tributarie i poteri istruttori di indagine nei limiti dei fatti dedotti in giudizio dalle parti.
A tal proposito è bene sottolineare che rispetto alla revidente disciplina normativa che non limitava l’esercizio dei poteri istruttori delle Commissioni tributarie, la nuova disposizione riduce l’esercizio stesso ai soli casi di indagine dei fatti dedotti dalle parti.
L’inciso del primo comma – nei limiti dei fatti dedotti dalle parti – esprime l’accoglimento in via generale del c.d. onere di allegazione, per il quale spetta a ciascuna parte indicare i fatti a sé favorevoli, che per l’Amministrazione Finanziaria sono i fatti costitutivi della pretesa fiscale e per il ricorrente i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi.
In particolare, il collegio giudicante ha le stesse facoltà di accesso, di richiesta dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli Uffici tributari e agli enti locali delle singole leggi d’imposta.
Inoltre, la Commissione tributaria può richiedere, nei casi di particolare complessità tecnica, relazioni esplicative alla Pubblica Amministrazione o rapporti alla Guardia di Finanza.
Il presupposto della richiesta di relazioni è la complessità tecnica della materia ed ha alla base l’inidoneità della Commissione a conoscere di particolari dati tecnici in specifici settori finanziari.
L’istituto è affine a quello contemplato dall’art. 213 c.p.c., rubricato “Richiesta di informazioni alla Pubblica Amministrazione”, ed è volto ad assumere un “resoconto” storico-conoscitivo da parte degli organi dello Stato e degli enti locali per fornire al giudice tributario gli imprescindibili parametri tecnici di valutazione.
L’art. 7 annovera, altresì, la consulenza tecnica che svolge funzione di più pregnante ausilio, posto che il consulente non si limita a trasmettere specifiche cognizioni ed esperienze scientifiche nel campo di indagine, ma valuta egli stesso la situazione di fatto registrandola criticamente nella risposta al quesito formulato dal giudice tributario.
Per essa trovano applicazione le relative norme del c.p.c. (artt. da 62 a 64 e da 191 a 197).
Non sono applicabili gli artt. 198, 199 e 200 c.p.c., non essendo ammissibile un tentativo di conciliazione delle parti operato dal consulente tecnico d’ufficio, stante l’apposita disciplina dell’istituto della conciliazione delineata dall’art. 48.
Questi mezzi istruttori non costituiscono strumenti idonei a superare l’inerzia delle parti, bensì strumenti di ausilio per il giudice, sia per la ricerca degli elementi da porre a sostegno delle rispettive pretese, sia per quanto attiene all’introduzione strumentale degli stessi nel processo.
Il comma 3 dell’articolo in esame disponeva che la Commissione tributaria può ordinare, in ogni momento, alle parti il deposito di qualunque tipo di documento che assuma rilevanza ai fini della decisione.
Tale comma è stato abrogato dal comma 5 dell’art. 3-bis della L. n. 248/2005.
In realtà, tale norma si è prestata ad un uso improprio, allorquando l’ordine di acquisizione di particolari documenti ha, di fatto, sopperito alle carenze difensive di una delle parti, sollecitando la prova richiesta per la definizione della controversia (richiedendo magari il processo verbale di constatazione non prodotto in giudizio, ma richiamato per relationem dall’avviso di accertamento).
Giurisprudenza. Giudici tributari senza “supplenza”. Il giudice tributario non è tenuto ad acquisire le prove d’ufficio e non può supplire all’onere probatorio che spetta al contribuente. La Cassazione, sent. n. 10267 del 16/05/2005, ha ribadito che i poteri istruttori del giudice possono essere esercitati solo quando sia difficile o impossibile fornire le prove richieste da parte di chi vi è tenuto. Il giudice tributario, invece, può acquisire d’ufficio determinate prove solo se sono indispensabili per decidere e per motivare in maniera adeguata la sentenza. La Cassazione, già con la sent. n. 7129 del 09/05/2003, aveva affermato che l’esercizio dei poteri istruttori, previsti dall’art. 7 del D. Lgs. n. 546/92, non ha la funzione di sopperire alle deficienze probatorie delle parti che devono, comunque, produrre le prove in giudizio.
Il tutto viene, altresì, confermato dalla sentenza n. 366 dell’11/06/2006, nella quale, i giudici di legittimità hanno accolto le ragioni di un contribuente penalizzato dall’acquisizione del materiale disposto dal giudice tributario, ricordando, peraltro, che proprio la disposizione che dà questa possibilità alle Commissioni è stata abrogata dal D.L. n. 203/2005, convertito dalla L. n. 248/2005.
Nel processo tributario la prova documentale riveste importanza fondamentale.
Tra i documenti che possono essere richiesti ai contribuenti, ricoprono una notevole importanza le scritture contabili. L’importanza di questo settore deriva soprattutto dall’obbligo di tenere una regolare contabilità che incombe non solo agli imprenditori, ma anche agli esercenti arti e professioni. Ne consegue, che le diverse scritture contabili sono destinate ad assumere efficacia di prova legale nel senso che l’A.F. non potrà contrastare la loro attendibilità se non fornendo la prova contraria della loro inesattezza.
L’onere della prova documentale può essere integrato dai poteri della Commissione abilitata ad ordinare in ogni tempo l’esibizione di qualsiasi documento ritenuto necessario ai fini della decisione.
Il rifiuto di esibire i documenti richiesti può essere interpretato dal giudice in senso negativo alla parte, in applicazione dell’analogo principio dettato nelle norme del processo civile (artt. 116 e 118).
L’applicazione di tale regola nel processo tributario è giustificata dal rimando, ex art. 1, comma secondo del decreto, al codice di rito civile sull’espletamento della prova.
A differenza della produzione l’esibizione non comporta necessariamente l’inserimento nel fascicolo processuale del documento, limitandosi il giudice a restituirlo all’interessato dopo aver preso atto del suo contenuto descrivendolo nel processo verbale.
In alternativa può essere effettuata l’estrazione di copia per la parte che interessa.
Sono esclusi dai mezzi di prova nel processo tributario per espressa disposizione di legge (comma quarto dell’art. 7) sia il giuramento che la prova testimoniale.
Giurisprudenza. Divieto prova testimoniale. Sul punto si è pronunciata la Corte Costituzionale con
sentenza n. 18 del 21/01/2000, la quale nel ribadire la limitazione probatoria stabilita dall’art. 7, comma 4, del D. Lgs. n. 546/1992, stabilisce che essa non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale. Come, anche, il contribuente, può, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale. Allorché ciò avvenga, il giudice tributario potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/92, rinnovando ed, eventualmente, integrando l’attività istruttoria svolta dall’ufficio. Ad essa si è adeguata la CTP di Verbania con ordinanza del 16 maggio 2000.
In assenza di una espressa previsione da parte dell’art. 7 si possono considerare tre ulteriori mezzi istruttori:
1) le presunzioni, che assumono particolare rilevanza nel processo tributario. Esse consistono essenzialmente nel desumere fatti ignoti da fatti noti. Il Codice Civile disciplina le presunzioni agli artt. 2727 e ss, e le definisce come le conseguenze che il giudice trae dal fatto noto per indurne l’esistenza del fatto ignoto, purchè siano:
a) gravi, nel senso che devono avere obiettiva consistenza e adeguatezza;
b) precise, ossia chiaramente e univocamente individuabili;
c) concordanti, ossia compatibili fra loro.
In altri termini gli elementi indiziari devono assumere quelle caratteristiche della certezza, univocità e congruenza che li rendano idonei a fondare la ricostruzione dell’esistenza del fatto ignoto, secondo canoni di consequenzialità logica.
Le presunzioni possono essere legali, cioè predeterminate in assoluto dal legislatore, per le quali non è ammessa prova contraria, da quelle semplici, non prestabilite dalla legge ma lasciate al prudente apprezzamento del giudice.
In ordine alle presunzioni assolute, al giudice non resta che effettuare un controllo sulla corretta applicazione delle norme che le prevedono. Per le presunzioni semplici, invece, il legislatore subordina la loro applicazione al rispetto dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.
Tali presunzioni, stabilite dalle leggi d’imposta, mirano ad alleggerire l’onere probatorio delle parti e, in particolare dell’Amministrazione. Si pensi ad esempio alla presunzione ex artt, 38 e 39 del d.p.r. n. 600/1973.
2) gli studi settore, in quanto presunzioni relative, invertono l’onere della prova in capo al contribuente; quest’ultimo può, tuttavia, contrastare la rettifica anche con presunzioni volte a dimostrare l’inattendibilità dell’ammontare accertato (Cass., sent. n. 2891 del 27/02/2002).
Il contribuente che fornisce la prova contraria nell’ambito dell’accertamento da coefficienti presuntivi di determinazione dei ricavi ha diritto di vedersi riconoscere in giudizio la sua reale capacità contributiva (Cass., sent. n. 7420 del 14/05/2003).
3) la confessione stragiudiziale entra a pieno titolo nel processo tributario dovendo essere considerata tra gli strumenti probatori consentiti.

SEZIONE TERZA
LE VICENDE “ANORMALI” DEL PROCESSO SOSPENSIONE, INTERRUZIONE ED ESTINZIONE DEL PROCESSO

1. La sospensione del processo (art. 39 D. Lgs. n. 546/92)
Il processo tributario, al verificarsi di determinate ipotesi, deve essere necessariamente sospeso.
Le cause di sospensione del processo tributario, espressamente previste dall’art. 39 sono costituite:
- dalla presentazione, nel corso del giudizio, di una querela di falso;
- ovvero dalla necessità di pervenire, in via pregiudiziale, alla soluzione di una questione inerente lo stato o la capacità delle persone.
In tema di querela di falso, per la sospensione è necessario che il documento impugnato sia rilevante ai fini della decisione o che la questione sullo stato o sulla capacità abbia rilevanza pregiudiziale sulla vertenza tributaria.
Quanto alle questioni di capacità, esse devono afferire alla idoneità di un soggetto ad essere titolare di posizioni giuridiche; sicchè non rilevano, ai fini della sospensione, le questioni relative alla attribuibilità, in concreto, ad un soggetto di una determinata posizione giuridica.
Le questioni di stato legittimanti la sospensione sono quelle relative alla posizione soggettiva dell’individuo, quale cittadino e soggetto titolare di diritti personali e politici.
Nel periodo in cui il processo è sospeso non possono essere compiuti atti processuali.
I termini processuali sono interrotti e ricominciano a decorrere dal giorno in cui il processo viene ripreso.
Venute meno le circostanze che hanno determinato la sospensione della causa, il processo può continuare previa proposizione – ad opera di una delle parti – di un’istanza di trattazione al Presidente di Sezione della Commissione.
L’istanza di trattazione deve essere presentata entro sei mesi dal giorno in cui sono cessate le cause determinative della sospensione.
Giurisprudenza. Sospensione del processo. La norma in argomento attiene alla disciplina dei rapporti tra giurisdizione tributaria e ogni altra giurisdizione, ordinaria o amministrativa e, al riguardo, pone una deroga, per ipotesi tassativamente determinate, al principio generale per il quale le questioni pregiudiziali sono risolte incidenter dal giudice munito di giurisdizione sulla domanda. Sul punto la Cassazione nella sentenza n. 11140 del 26/05/2005 esclude che il processo tributario possa essere sospeso in ragione di una, ritenuta necessità della risoluzione di questioni pregiudiziali devolute, di norma, alla cognizione del giudice ordinario o di quello amministrativo. In tema di rito tributario, infatti, vige il principio che il giudice debba sempre dare corso alla definizione della lite tributaria risolvendo, incidenter tantum, le questioni in argomento indipendentemente dal fatto che su tali questioni penda altro giudizio davanti ad altro giudice.
Il giudice tributario non è obbligato a sospendere il processo riguardante il reddito del socio se è pendente la controversia sul reddito societario! La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13814 del 27 giugno 2005, traccia i confini tra le controversie che riguardano il reddito prodotto da una società con quelle che, invece, vedono protagonista il socio. Per il giudice di legittimità, la “mancata adozione di un unico atto di accertamento per la società e per i soci rende possibile l’apertura di tanti processi quanti sono gli atti notificati.” E’, inoltre, escluso che possa configurarsi il c.d. litisconsorzio 25 necessario. In questo caso, non può essere applicata la disposizione processuale (art. 14, co. 1, D. Lgs. n. 546/92) in base alla quale se l’oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, questi devono essere tutti parte nello stesso processo e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni di essi.

2.L’interruzione del processo (art. 40 D. Lgs. n. 546/92)
L’istituto dell’interruzione del processo ha il fine di garantire, in ogni circostanza, l’effettiva attuazione del principio del contraddittorio.
In particolare, costituiscono causa d’interruzione del processo tributario:
1) il venir meno, per morte o per altre cause, o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti, diversa dall’Amministrazione finanziaria, o del suo legale rappresentante o la cessazione di tale rappresentanza, ovvero l’estinzione della persona giuridica.
2) La morte, la radiazione o sospensione dall’albo o dall’elenco di uno dei difensori incaricati ai sensi dell’art. 12 D. Lgs. n. 546/92.
L’interruzione è immediata e coincide con il momento in cui l’evento si è verificato se la parte sta in giudizio personalmente e nei casi indicati al n. 2).
In ogni altro caso, l’interruzione si verifica quando l’evento è dichiarato in pubblica udienza o per iscritto con apposita comunicazione del difensore della parte a cui l’evento si riferisce.
Se uno degli eventi causativi della interruzione si avvera dopo l’ultimo giorno utile per il deposito di memorie prima della trattazione della controversia in Camera di Consiglio (5 giorni liberi), ovvero dopo la chiusura della discussione in pubblica udienza, esso non produce effetti interrottivi; salvo che la Commissione, anziché pronunciare la sentenza, faccia proseguire il processo, con la conseguente necessità di ripristinare il contraddittorio.
L’interruzione del processo può essere disposta a condizione che l’evento “interruttivo” si sia verificato:
- dopo la proposizione del ricorso (cioè successivamente alla notifica di tale atto); o - alla data di spedizione del ricorso (risultante dal timbro postale apposto sulla raccomandata).
La messa in liquidazione di una società non determina l’interruzione del processo tributario; la persona giuridica che versa in tale status continua ad esistere fino alla definizione di tutti i rapporti giuridici che ad essa facevano capo.
Per effetto dell’interruzione del processo i termini processuali ricominciano a decorrere dal giorno in cui la causa viene riassunta.

3.L’estinzione del processo.
Le cause di estinzione del processo tributario sono identificabili in tre categorie:
a) la rinuncia al ricorso;
b) l’inattività delle parti;
c) la cessazione della materia del contendere.
A) L’estinzione del giudizio per rinuncia al ricorso (art. 44 D. Lgs. n. 546/92).
La rinuncia al ricorso implica l’estinzione della pretesa vantata con il ricorso. Si distingue dalla rinuncia alla domanda, in quanto non preclude la riproponibilità di un ricorso che contenga la stessa domanda.
L’efficacia estintiva della rinuncia al ricorso è subordinata all’accettazione delle altre parti costituite che abbiano un effettivo interesse alla prosecuzione del processo.
Nel caso di litisconsorzio necessario attivo, l’effetto estintivo è condizionato sospensivamente alla rinuncia di tutti i litisconsorzi costituiti.
La rinuncia, poiché actus legittimus, non può essere assoggettata a termine o condizione e deve essere redatta in forma scritta.
La rinuncia potrà essere sottoscritta direttamente dal solo difensore se, nella procura, sia
espressamente conferito al difensore tale potere.
La rinuncia produce effetto dal giorno in cui è dichiarata; la dichiarazione avviene con decreto, reclamabile, del Presidente della Sezione, se non è stata ancora fissata l’udienza di trattazione, ovvero con sentenza della Commissione, se l’udienza è stata già fissata.
Salvo diverso accordo intervenuto, stragiudizialmente, tra le parti, il rinunciante è gravato, ex lege, dal pagamento delle spese di lite.
B) L’estinzione del giudizio per inattività delle parti (art. 45 D. Lgs. n. 546/92).
Il processo tributario, poiché fondato sul principio c.d. dispositivo, si estingue a seguito dell’inattività delle parti; essa, tuttavia, per avere efficacia estintiva deve concretarsi nelle seguenti omissioni:
- mancata richiesta di ripresa del processo sospeso;
- mancata richiesta di ripresa del processo interrotto;
- mancata integrazione del contraddittorio nel termine perentorio fissato dalla legge o dal Collegio;
- mancata riassunzione del processo dinanzi la Commissione tributaria competente, a seguito della incompetenza territoriale dichiarata da quella adita.
La rinuncia produce effetto dal giorno in cui è dichiarata; la dichiarazione avviene con decreto, reclamabile, del Presidente della Sezione, se non è stata ancora fissata l’udienza di trattazione, ovvero con sentenza della Commissione, se l’udienza è stata già fissata.
L’inattività può essere eccepita da una delle parti, ovvero rilevata d’ufficio; essa, tuttavia, produce effetti solo se dichiarata nel grado di giudizio in cui si verifica.
C) L’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere (art. 46 D. Lgs. n. 546/92).
Il giudizio si estingue per cessata materia del contendere. Tale causa estintiva viene in considerazione ogni qualvolta sopravvenga una circostanza, riconosciuta ed ammessa da entrambe le parti, che, eliminando le posizioni di contrasto, abbia fatto venir meno la necessità di una pronuncia del giudice.
L’estinzione del giudizio si verifica, altresì, allorquando, il contribuente abbia aderito alle proposte di definizione delle liti fiscali previste – una tantum – dalla legge (condoni, sanatorie, ecc.).
Giurisprudenza. Il giudizio estinto “per colpa” dell’Amministrazione non obbliga il contribuente a versare le spese.
Anche l’Amministrazione Finanziaria può essere condannata al versamento delle spese nel caso in cui il giudizio si risolva a favore del ricorrente. E’ quanto ha chiarito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 274 del 14/07/2005. I Giudici delle leggi hanno ravvisato l’illegittimità costituzionale del comma 3, dell’art. 46 del D. Lgs. n. 546/92, nella parte in cui preclude ai giudici di condannare l’Amministrazione soccombente al pagamento delle spese. Una discriminazione – sostengono i Giudici – in considerazione del processo civile ed amministrativo ove “chi perde” è tenuto al versamento secondo il principio di responsabilità.
La Corte ha, poi, ribadito che in considerazione della particolare natura del contenzioso tributario ove nella quasi totalità dei casi è il contribuente ed anticipare le spese, l’illegittimità della norma è ancora più evidente.

CAPITOLO SECONDO
LE IMPUGNAZIONI
SEZIONE PRIMA
APPELLO ALLA COMMISSIONE REGIONALE

1. Premessa
L’art. 49 del D. Lgs. n. 546/92, introduttivo della sezione sulle impugnazioni in generale, richiama espressamente le disposizioni del titolo III, capo I, del libro secondo del codice di procedura civile escludendo l’art. 337 c.p.c., relativo alla immediata esecutività della sentenza resa nel giudizio di primo grado ed alla sospensione del processo per il caso di impugnazione di altre sentenze su questioni pregiudiziali, stante l’evidente incompatibilità dell’una e dell’altra disposizione con la disciplina contenuta nel decreto che, come detto, prevale su quella del codice di procedura civile.
Il sistema delle impugnazioni così delineato vede come fonte normativa primaria gli articoli da 49 a 67 del d. lgs. 546/92, quindi gli articoli da 323 a 403 del c.p.c. (con esclusione, come detto, dell’art. 337 c.p.c.), in quanto compatibili (secondo il disposto dell’art. 1 richiamato dall’ultima parte dell’art. 49). In via sussidiaria, e sempre in quanto compatibili, sono applicabili le norme previste del codice di procedura civile per il procedimento di primo grado.
L’appello è un rimedio sperimentabile in via normale per ottenere il riesame della controversia davanti ad un giudice di grado superiore. Carattere naturale dell’appello è l’effetto devolutivo, in virtù del quale la controversia viene riesaminata dal giudice del gravame. Il riesame deve però essere contenuto nei limiti dell’impugnazione sì chè l’effetto devolutivo ne risulta molto circoscritto.
Come previsto per l’introduzione del giudizio di primo grado, anche per il giudizio di appello, la fase processuale inizia con la notificazione, consegna o spedizione (in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento) dell’atto di appello.

2. Legittimazione ad appellare degli Uffici finanziari (art. 52, secondo comma, D. Lgs. n. 546/92)
Il secondo comma dell’art. 52 pone delle condizioni all’esercizio del potere d’appello delle sentenze di primo grado per gli uffici finanziari. Gli Uffici periferici del Dipartimento delle Entrate devono essere previamente autorizzati dal responsabile della competente Direzione Regionale delle Entrate; gli Uffici del territorio dal responsabile del servizio contenzioso della competente direzione compartimentale del territorio.

3. Conseguenze in caso di difetto di autorizzazione
Con riferimento all’ipotesi di proposizione dell’appello da parte degli uffici finanziari pur in mancanza di autorizzazione, si riscontrano opinioni diverse.
Alcuni propendono per considerare ammissibile un appello proposto senza autorizzazione, dal momento che l’art. 52, secondo comma, non sanziona espressamente con l’inammissibilità il ricorso in secondo grado proposto senza la debita autorizzazione. Altri, al contrario, sostengono l’inammissibilità dell’appello proposto in difetto di autorizzazione, in quanto presentata da un soggetto privo della dovuta legittimazione. Sul punto anche la Suprema Corte nelle sentenze n. 4040 del 27/02/2004 e n. 4770 del 09/03/2004, configura l’autorizzazione come presupposto processuale, la cui mancanza determina l’inammissibilità del gravame rilevabile in ogni stato e grado del giudizio.

4. Requisiti dell’appello
I requisiti richiesti dall’art. 53 per quanto concerne il contenuto del ricorso in appello, sono:
a) l’indicazione della Commissione Tributaria a cui è diretto;
b) l’indicazione dell’appellante e delle altre parti nei cui confronti è proposto;
c) gli estremi della sentenza impugnata;
d) l’esposizione sommaria dei fatti;
e) l’oggetto della domanda;
f) i motivi specifici dell’impugnazione.
La stessa norma precisa, altresì, che il ricorso in appello è inammissibile se manca o è assolutamente incerto uno degli elementi sopra menzionati o se non è sottoscritto a norma dell’art. 18, comma 3.
Il legislatore è intervenuto anche nel procedimento di appello, aggiungendo al comma 2 dell’art. 53, D. Lgs. n. 546/92 un ulteriore periodo: “Ove il ricorso non sia notificato a mezzo ufficiale giudiziario l’appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell’appello presso l’Ufficio di segreteria della Commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata”.
In pratica, l’appellante, qualora proponga il ricorso in appello brevi manu o a mezzo posta, deve assolvere all’ulteriore adempimento di depositare una copia dello stesso presso la segreteria della Commissione tributaria Provinciale che ha emesso la sentenza oggetto di gravame.
La portata innovativa di tale norma risulta dirompente, ove si consideri che tale adempimento è previsto a pena di inammissibilità dell’appello proposto e potrebbe essere, ad oggi, sfuggito alle parti in causa che si siano trovate ad incardinare un giudizio di appello dopo l’entrata in vigore della norma (03 dicembre 2005).
Vi è da chiedersi, pertanto, quale soluzione interpretativa possa essere adottata in caso di violazione di tale norma ed, in particolare, se il mancato deposito della copia del ricorso in appello presso la Commissione che ha emesso la sentenza comporti, sic et simpliciter, l’inammissibilità dell’appello proposto.
Sul punto alcuni sostengono che, in assenza di uno specifico termine, la parte sia sempre in tempo per l’adempimento.
Alla fine si può sostenere che il termine entro il quale assolvere all’adempimento è il medesimo di trenta giorni previsto per la costituzione in giudizio fissato dall’art. 22 e richiamato dall’art. 53.
L’appello avverso la sentenza della Commissione tributaria deve essere proposto entro sessanta giorni a decorrere dalla notificazione della sentenza ad istanza di parte.
L’innovazione sostanziale della disciplina contenuta negli artt. 51, comma primo, e 38 comma terzo, D. Lgs. n. 546/92 è costituita dalla introduzione anche nel processo tributario del doppio termine di impugnazione: quello breve di sessanta giorni in caso di notifica della sentenza, e quello lungo di un anno dal deposito della sentenza nella segreteria che si applica nel caso di mancata notifica. Scaduto il termine annuale la sentenza passa in giudicato anche se, essendo stata notificata verso lo spirare del detto termine, è ancora in corso il termine breve di sessanta giorni dalla notifica.
Per effetto del disposto dell’art. 1 della legge 7 ottobre 1969 n. 742 i termini processuali sono sospesi dal primo agosto al quindici settembre di ogni anno, quindi i termini di impugnazione che inizierebbero il loro decorso in detto periodo, cominciano a decorrere dalla fine di esso e cioè dal sedici settembre.
In tema di notificazione, la Cassazione, sent. n. 8465 del 22/04/2005, ha affermato che la speciale disciplina di cui all’art. 16, quarto comma, D. Lgs. n. 546/92, trova applicazione, oltre che nel giudizio di primo grado anche per la notificazione dell’atto di appello, in quanto l’art. 49 del citato decreto, nel richiamare, per la disciplina delle impugnazioni del processo tributario, soltanto alcune disposizioni del c.p.c., ha reso applicabile a detta disciplina anche l’art. 16, che regola in generale le modalità delle notificazioni degli atti nel processo tributario.
Giurisprudenza.
Atto di appello. Mancato deposito nella segreteria dell’originale.
La Corte di Cassazione, nella sent. n. 28315 del 21/12/2005 ha statuito che non sempre è insanabile la situazione in cui è depositato il ricorso d’appello prima della sua notifica alla controparte. Infatti, la disciplina del processo tributario stabilisce la sanzione della inammissibilità del ricorso solo per la scadenza del termine. La situazione può essere sanata se le parti hanno avuto la possibilità di mettere in atto la propria difesa e, quindi, raggiungere quel risultato a cui sono destinati gli adempimenti della notifica e della costituzione in giudizio.
Anche se la segreteria ha l’obbligo di comunicare il dispositivo della sentenza entro dieci giorni dal deposito (art. 37 comma secondo), l’omissione di tale adempimento non produce alcun effetto processuale per cui le parti devono diligentemente controllare quando è stata depositata la sentenza per non rischiare di decadere dal diritto di impugnarla.
Unico effetto del mancato avviso è l’eventuale responsabilità amministrativa e disciplinare della segreteria che potrà rispondere anche civilmente in caso di dolo o colpa grave.

5. Appello incidentale (art. 54 D. Lgs. n. 546/92).
L’art. 54, primo comma, dispone che le parti diverse dall’appellante debbono costituirsi nei modi e termini di cui all’art. 23 depositando apposito atto di controdeduzioni nei modi e termini di cui all’art. 23. Nel medesimo atto può essere proposto, a pena d’inammissibilità, appello incidentale.
L’appello incidentale non va notificato all’appellante principale e a tutte le parti che hanno partecipato al processo di primo grado, ma va solo depositato, entro il termine perentorio di 60 giorni, decorrente dalla notifica dell’appello principale presso la segreteria della Commissione Tributaria Regionale in tanti esemplari, pari alle parti in giudizio, corredati dai documenti offerti in comunicazione.
Il tempo costituisce il solo criterio per distinguere tra appello principale ed appello incidentale. Ciò che rileva è il solo fattore temporale e non già le denominazioni che possono avere impiegato le parti. Deve considerarsi principale l’impugnazione proposta per prima.
L’impugnazione incidentale, ovviamente, può essere proposta soltanto da chi vi abbia interesse e tale interesse sussiste se e nei limiti in cui la parte sia rimasta soccombente.
Di conseguenza non deve proporre appello incidentale la parte che abbia interesse non alla riforma, ma alla conferma della sentenza impugnata.

6. Divieto dello ius novorum (art. 57 D. Lgs. n. 546/92)
Il legislatore tributario ha introdotto il divieto dello ius novorum nel disposto dell’art. 57 del Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, analogamente a quanto già previsto dagli articoli 345 c.p.c. in ambito civile e 437 c.p.c. nel rito del lavoro. La norma costituisce una radicale innovazione rispetto ad una disciplina, quale quella dettata dal D.P.R. n. 636 del 1972, che difettava totalmente di una tale previsione.
Il testo del citato art. 57 recita, al primo comma, che nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili.
Il secondo comma prevede che non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d'ufficio.
L'unica eccezione prevista è quella relativa alla richiesta di interessi maturati in seguito alla sentenza impugnata.
Per poter qualificare una domanda come nuova, è necessario fare riferimento agli elementi costitutivi di essa, ovvero ai soggetti, al petitum e alla causa petendi. Nel giudizio dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale è preclusa la formulazione di domande che comportino un mutamento dell’oggetto rispetto a quelle dedotte in primo grado ovvero che abbiano un nuovo petitum.
L’eccezione, invece, è il mezzo mediante il quale una parte processuale è in grado di contrastare le domande della controparte, ampliando l’oggetto del giudizio, e, quindi, del thema decidendum.
Possono definirsi eccezioni in senso “proprio”:
- l’eccezione di prescrizione estintiva;
- l’eccezione di sussistenza di atti interruttivi della prescrizione;
- l’eccezione di giudicato interno;
- l’eccezione di compensazione;
- l’eccezione di rinuncia al diritto;
- l’eccezione di difetto di titolarità passiva del diritto fatto valere in giudizio;
- l’eccezione di disconoscimento di scrittura privata autenticata prodotta in primo grado;
- l’eccezione di incompetenza territoriale;
- l’eccezione d’inadempimento.
Esemplificazioni. In tema di contenzioso tributario, la nullità dell'avviso d'accertamento non è rilevabile d'ufficio e la relativa eccezione, se non formulata nel giudizio di primo grado, non è ammissibile qualora sia proposta per la prima volta nelle successive fasi del giudizio (V. Corte di Cassazione sentenza n. 13087 del 08/09/2003).
Ancora, nel caso di controversia insorta a seguito di presentazione di istanza di rimborso da parte del contribuente, vanno tecnicamente qualificate "eccezioni" le ragioni opposte dall'Amministrazione Finanziaria alla detta pretesa di rimborso. Ne consegue che l'amministrazione stessa soggiace al divieto di proporre eccezioni nuove in appello non rilevabili d'ufficio, prescritto dall'art. 57, comma secondo, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (qualora non ricorrano le condizioni di inapplicabilità di tale norma previste dalla disciplina transitoria dettata dall'art. 79 del D.Lgs. medesimo). Non può, quindi, in tale sede, introdurre un nuovo tema d'indagine, fondato su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado (V. Corte di Cassazione sentenza n. 4320 del 01/03/2005).
Giurisprudenza. Nella giurisprudenza della Suprema Corte è principio ormai pacifico che il divieto dello ius novorum si riferisce alle eccezioni in senso proprio, non alle semplici argomentazioni difensive poste a fondamento della domanda o alle prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di una eccezione. Illuminante è, a tal proposito, la sentenza della Corte di Cassazione - Sezione V, del 23/04/2002 n. 5895, secondo cui le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di una eccezione non costituiscono a loro volta eccezioni in senso tecnico, le quali sono costituite da quelle ragioni delle parti su cui il giudice non può pronunciarsi se ne manchi l'allegazione ad opera delle stesse parti. Ne consegue che eventuali preclusioni in appello non riguardano i fatti e le argomentazioni, posti a fondamento della domanda, che costituiscono oggetto di accertamento, di esame e di valutazione da parte del giudice di secondo grado.
(Nella specie, un contribuente, che in primo grado aveva ottenuto l'annullamento di una cartella esattoriale, lamentava che il giudice d'appello avesse considerato come difesa l'eccezione dell'ente impositore, solo in quella sede formulata, di mancanza della preventiva denuncia dell'attività soggetta ad imposta. La S.C. ha ritenuto che l'esistenza della denuncia integrava uno degli elementi costitutivi della pretesa del contribuente, ed era dunque un requisito che poteva essere contestato dall'ente impositore anche per la prima volta in appello)”.
Interessante, sull’argomento, è la sentenza della Corte di Cassazione del 12/08/2004, n. 15646. La Corte afferma che nel giudizio che si instaura mediante l'impugnazione di un provvedimento espresso o tacito di diniego del diritto al rimborso di un tributo, il contribuente, assumendo la veste sostanziale di parte attrice, ha l'onere di allegazione (e di prova) dei fatti costitutivi dei suo credito verso l'erario, mentre grava sull'Amministrazione Finanziaria convenuta quello di esporre le proprie difese (e di indicare le prove di cui intende valersi), prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente e proponendo le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio. In relazione a tali oneri va interpretata, quindi, la preclusione alla proposizione nel secondo grado del giudizio di eccezioni nuove, posta dall'art. 57, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Ciò in quanto, da un lato, deve escludersi che la norma comporti l'improponibilità con nuovi argomenti di eccezioni già formulate (laddove non venga violato il divieto di ampliamento in appello del thema decidendum al rispetto del quale è funzionale il limite imposto dalla legge) Dall'altro, non può ritenersi inclusa nella sua operatività la nuova prospettazione di c. d. eccezioni improprie, o mere difese, dirette a sollecitare il rilievo d'ufficio da parte del Giudice dell'inesistenza dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, della cui prova era onerato il contribuente.
La Suprema Corte nella recentissima sentenza, n. 4602, del 03/03/2005, ribadisce che è improponibile per la prima volta in appello l’eccezione, che non sia rilevabile anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 57, comma 2, del D.Lgs. 546/1992, ovvero la prospettazione di una ragione su cui il giudice non può pronunciarsi, se ne manchi l’allegazione ad opera delle parti.
Il divieto di proposizione di nuove eccezioni nel giudizio di appello è una novità introdotta con l’art. 52, L. 26 novembre 1990, n. 353, perché in precedenza, secondo l’art. 345 c.p.c. nel testo introdotto dall’art. 36 L. 14 luglio 1950, n. 581, il divieto della novità riguardava le domande, ma non le eccezioni.
I divieti contemplati nell’art. 57 hanno carattere assoluto e possono essere rilevati d’ufficio anche in caso di accettazione del nuovo contraddittorio da parte dell’avversario.

7. Eccezioni proponibili per la prima volta in appello
Non costituiscono eccezioni in senso proprio, ma mere argomentazioni difensive e, quindi, proponibili per la prima volta anche in sede di appello:
- qualsivoglia questione di interpretazione normativa;
- la questione di legittimità costituzionale di una norma;
- la deduzione di adempimento dell’obbligazione;
- la contestazione del valore probatorio dei mezzi istruttori utilizzati in primo grado;
- la critica al risultato di consulenza tecnica esperita in primo grado;
- la contestazione relativa agli elementi costitutivi della domanda e ai suoi requisiti di fondatezza.
Sono, inoltre, da ritenere sicuramente ammesse:
- le eccezioni rimesse all'iniziativa di parte come l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello, - il difetto di legittimazione processuale, - l’eccezione di compensazione, - l’eccezione di prescrizione, - l’eccezione di giudicato esterno, “se risulti da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito”.
Con particolare attenzione a tale ultima eccezione, si consideri la sentenza della Corte di Cassazione a SS.UU., n. 226 del 25/5/2001. In essa si afferma che, poiché nel nostro ordinamento vige il principio della rilevabilità di ufficio delle eccezioni, l'esistenza di un giudicato esterno, è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d'ufficio, ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa, qualora essa emerga da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito. Del resto, il giudicato interno e quello esterno, non solo hanno la medesima autorità, che è quella prevista dall'art. 2909 cod. civ., ma corrispondono entrambi all'unica finalità rappresentata dall'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche e dalla stabilità delle decisioni, la cui autorità di giudicato è riconosciuta non solo nell'interesse del singolo soggetto che lo ha provocato, ma nell'interesse pubblico. Più in particolare, il rilievo dell'esistenza di un giudicato esterno non è subordinato ad una tempestiva allegazione dei fatti costitutivi dello stesso, né subisce i limiti delle decadenze istruttorie. L’allegazione di un giudicato esterno può, infatti, essere effettuata in ogni stato e fase del giudizio di merito. Da ciò consegue che, in mancanza di pronuncia o nell'ipotesi in cui il giudice di merito abbia affermato la tardività dell'allegazione e la relativa pronuncia sia stata impugnata, il giudice di legittimità accerta l'esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena, che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall'interpretazione data al riguardo dal giudice del merito.
Sull’argomento la Cassazione, con la sentenza n. 20623 del 2004 afferma ancora che incombe a colui che ha chiesto un rimborso la contestazione dell'avvenuto pagamento, la quale non costituisce eccezione in senso stretto, ma mera difesa, e può quindi essere proposta anche in appello, senza incontrare il limite di cui all'art. 57 del D.L.vo n. 546 del 1992.
Sono, infine, proponibili anche in appello:
- il difetto di giurisdizione non rilevato in primo grado;
- l’eccezione di giudicato esterno, per avanzare la quale il contribuente non è nemmeno tenuto a dimostrare di non essere stato precedentemente a conoscenza della sentenza invocata per causa a lui non imputabile;
- decadenza dell'Amministrazione Finanziaria dall'esercizio di un potere nei confronti del contribuente.
In proposito la giurisprudenza consolidata della Cassazione (v. sentenza n. 20623 del 22/10/2004) distingue l'ipotesi di decadenza dell'Amministrazione Finanziaria dall'esercizio di un potere nei confronti del contribuente dall'ipotesi di decadenza del contribuente dall'esercizio di un potere nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria.
Nel primo caso, la decadenza (in quanto stabilita in favore e nell'interesse esclusivo del contribuente, in materia di diritti da questo disponibili) non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma deve essere dedotta dal contribuente davanti all'adita Commissione tributaria.
Sul punto, la Cassazione (v. sentenza n. 2552 del 20 febbraio 2003) ha affermato che il termine di decadenza sostanziale stabilito in favore del contribuente non può ritenersi indisponibile, con la conseguenza che, da un lato, non trova applicazione, ai sensi dell'art. 2969 cod. civ., la disciplina della rilevabilità d'ufficio, prevista da detta norma per il caso di materia sottratta alla disponibilità delle parti, e, dall'altro, non è consentita una deduzione della violazione del menzionato termine per la prima volta in sede di legittimità, restando soggetta la relativa eccezione alla disciplina dell'art. 57 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che ne impone la formulazione nel giudizio tributario di primo grado.
Nel secondo caso, invece, la decadenza, in quanto stabilita in favore dell'Amministrazione Finanziaria ed attinente a situazioni non disponibili da quest’ultima (v. Corte di Cassazione n. 8606 e 2841 del 1996), è rilevabile anche d'ufficio.
Esempio. La decadenza del contribuente dal diritto al rimborso per non aver presentato la relativa istanza nel termine previsto dall'art. 38 del D.P.R. n. 602 del 1973. Tale decadenza è rilevabile d’ufficio, salvo che sul punto si sia già formato un giudicato interno e senza che rilevi la distinzione tra rimborso di versamenti autonomi e rimborso di versamenti effettuati a seguito di provvedimenti dell'Amministrazione.
Giurisprudenza. Sul punto è interessante esaminare, infine, la sentenza della Corte di Cassazione – Sezione V del 28/07/2000 n. 9940, secondo cui le decadenze stabilite dalle leggi fiscali in favore dell'Amministrazione Finanziaria - quale, appunto, quella stabilita dall'art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 per la proponibilità entro diciotto mesi delle istanze di rimborso dei versamenti diretti - attengono a situazioni non disponibili dall'amministrazione medesima, e, perciò, a mente dell'art. 2969 cod. civ., rientrano fra quelle rilevabili dal giudice anche d'ufficio. Pertanto la deduzione in appello della decadenza in argomento è proponibile ai sensi dell'art. 57, comma secondo, del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546.
Recente, sull’argomento, è la sentenza della Suprema Corte n. 2552 del 20/02/2003, secondo la quale il termine di decadenza sostanziale stabilito in favore del contribuente non è, ai sensi dell'articolo 2969 del codice civile, sottratto alla disponibilità delle parti e, quindi, la violazione di tale termine da parte dell'ufficio non è rilevabile d'ufficio dal giudice ma deve essere dedotta dal contribuente in base all'articolo 57 del D.Lgs. n. 546/92 nel giudizio di primo grado (né può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità).
Su questo tema, in realtà, ci sono dubbi e contrasti: giurisprudenza recente della Cassazione giudica inammissibile la deduzione da parte del contribuente, soltanto in appello, della decadenza della liquidazione ex art. 36 bis D.P.R. 600/73; ma qui la decisione sembra soprattutto conseguenza della struttura “oppositiva” delle cause concernenti l’impugnazione di provvedimenti amministrativi, struttura che delimita l’oggetto del giudizio ai vizi dell’atto dedotti con il ricorso.
Circa le modalità di rilevazione delle eccezioni ammesse, qualora vi provveda il giudice di appello, questi è tenuto a sollevare la questione e permettere alla parte, in sfavore della quale l’eccezione incide, di poter replicare adeguatamente, in attuazione del rispetto del principio del contraddittorio.
Nel caso in cui sia, invece, la parte a sollevare un’eccezione, essa può farlo sia nelle memorie da presentarsi in prossimità della trattazione della controversia ovvero in occasione della discussione in pubblica udienza. E’ sufficiente che alla controparte sia accordata la possibilità di replicare ed, eventualmente, di proporre controeccezione (rilevabili, naturalmente, d’ufficio).
Resta tuttora irrisolto il problema della conciliabilità della disciplina dello ius novorum con il disposto dell’art 61 del D.P.R. 600/1973 il cui dettato recita: “Il contribuente può ricorrere contro gli atti di accertamento e di irrogazione delle sanzioni secondo le disposizioni relative al contenzioso tributario di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636. La nullità dell'accertamento ai sensi del terzo comma dell'art. 42 e del terzo comma dell'art. 43, e in genere per difetto di motivazione, deve essere eccepita a pena di decadenza in primo grado”. Ciò importa che non sono deducibili in appello i vizi inerenti la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione degli atti di accertamento e la denuncia della mancata indicazione nell’avviso di accertamento dei motivi nuovi che ne hanno giustificato la remissione, nonché la denuncia del vizio relativo al difetto di motivazione.
La filosofia dell’art. 57 risponde, infatti, all’esigenza di evitare un indebito ampliamento del thema decidendum nel processo di seconda istanza, che si configura come mera ripetizione del giudizio di primo grado., o più specificamente come una revisio prioris istantiae e non come un novum iudicium.

8. Divieto di introduzione di nuove prove in appello (art. 58 D. Lgs. n. 546/92)
A norma dell’art. 58 del D.Lgs. 546/92 “Il giudice d'appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile. é fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”.
La ratio dell’art. 58 risponde alla generale esigenza legislativa di introdurre nel contenzioso tributario un giudizio di secondo grado ad istruttoria c.d. “chiusa”, parimenti al processo civile. L’intento di evitare ampliamenti del thema decidendum, già espresso nel precedente art. 57 in ordine alle domande e alle eccezioni, nell’art. 58 viene applicato all’ambito squisitamente probatorio.
Per prova nuova in appello si intende quella non dedotta in primo grado, ovvero che, prescindendo dal fatto che il giudice di primo grado l’abbia ammessa oppure no, non sia stata ritualmente richiesta dalla parte.
Non incorre, invece, nella preclusione di prova nuova la parte che reiteri, in sede di appello, la richiesta della prova non ammessa in primo grado. Un eventuale rifiuto del giudice di accogliere la medesima, giustificato da un rinvio all’art. 345 c.p.c., è motivo di ricorso in Cassazione per violazione di legge.
La disposizione del secondo comma dell’art. 58, fa espressamente salva la facoltà delle parti di produrre in appello nuovi documenti, indipendentemente dall'impossibilità dell'interessato di produrlo in prima istanza per causa a lui non imputabile, requisito richiesto dall'art. 345 ultimo comma c.p.c..
Si tratta di un’eccezione al primo comma la cui rilevanza si rivela tutt’altro che secondaria, ove si consideri che in una materia come quella tributaria, in assenza di prove orali, quella documentale è la prova per eccellenza. E’, anzi, legittimo affermare che il secondo comma dell’art. 58 finisce per vanificare in parte il comma precedente, reintroducendo di fatto nel procedimento gran parte di quei mezzi probatori che sembravano essere stati esclusi.
Giurisprudenza. Ammissibilità di nuovi documenti in appello. A titolo esemplificativo si può considerare la sentenza n. 2027 dell'11 febbraio 2003, con cui la Cassazione ha dichiarato ammissibile la produzione di nuovi documenti nel giudizio di secondo grado, indipendentemente dall'impossibilità dell'interessato di produrli in prima istanza per causa a lui non imputabile.
Nella stessa direzione, la sentenza n. 7602 del 24/05/2002 chiariva che l'autorizzazione al sindaco di un Comune a stare un giudizio, rilasciata anteriormente alla costituzione nel giudizio di primo grado, può essere prodotta per la prima volta in grado di appello, essendo consentita la produzione di nuovi documenti in tale grado, ai sensi dell'art. 58, comma secondo, del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.
In merito alla nozione di documenti in senso proprio, non sono da considerarsi nuovi documenti quelli venuti ad esistenza dopo il giudizio di primo grado, ma solo quelli preesistenti e non prodotti in primo grado. Inoltre, il termine va riferito alle quietanze, agli estratti delle scritture contabili e a tutti i giustificativi di spesa che sovente si rivelano decisivi per la risoluzione della controversia. Non, invece, ai precedenti giurisprudenziali, alla dottrina o ai testi di legge, i quali possono essere esibiti non solo a termini scaduti, ma anche in corso di discussione della causa.
A fronte di un vivace dibattito dottrinale è possibile escludere anche la consulenza tecnica che viene ormai pacificamente considerata, sulla scorta della giurisprudenza giuslavoristica, una mera allegazione difensiva tecnica.
La facoltà di produzione di documenti non può essere esercitata all'udienza di trattazione. Diversamente, ne risulterebbe leso il diritto alla difesa della controparte, la quale si troverebbe a dover conoscere di tali nuovi elementi per la prima volta e a dover prendere posizione su di essi tardivamente.
L’allegazione di documenti nuovi è, invece, possibile oltre che nell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado, anche a mezzo memorie illustrative, in quanto, in tal caso, la controparte ha la possibilità di esaminare i nuovi documenti e di esercitare correttamente il proprio diritto di difesa. Tale diritto viene riconosciuto esclusivamente al contribuente, al quale la dottrina ritiene vada attribuita la facoltà di integrazione dei motivi spesi in primo grado, laddove l’Amministrazione Finanziaria produca nuovi documenti in appello.
Fino ad oggi si è sempre ritenuta un’assoluta libertà di deposito dei documenti, mentre, alla luce delle recenti sentenze della Cassazione tributaria, il discorso va rivisto.
Infatti, l’art. 32 primo comma del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 stabilisce che le parti possono depositare documenti fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione. Sulla scorta di tale disposizione, la Cassazione ha ritenuto di poter ritenere tale termine perentorio, e non ordinatorio come in passato.
Coerente con tale interpretazione dottrinale è la sentenza della Cassazione, Sezione V, n. 1771 del 30/01/2004 che ha stabilito che “In tema di contenzioso tributario, il termine previsto dall'art. 32 del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 per il deposito di memorie e documenti (applicabile anche al giudizio di appello in virtù dell'art. 58, secondo comma, D. Lgs. cit.) deve ritenersi perentorio, pur non essendo dichiarato tale dalla legge, in quanto diretto a tutelare il diritto di difesa della controparte ed a realizzare il necessario contraddittorio tra le parti, e tra queste ed il giudice. Ne consegue che la mancata osservanza del detto termine determina la preclusione di ogni ulteriore attività processuale, senza che assuma alcun rilievo, in contrario, la circostanza che la controparte si sia costituita in giudizio senza nulla eccepire al riguardo. La possibilità di sanatoria a seguito di acquiescenza è ammessa, difatti, soltanto con riferimento alla forma degli atti processuali, e non anche relativamente all'inosservanza dei termini perentori, come previsto dall'art. 153 del codice di rito. Inoltre, i giudici non possono tenere conto, ai fini del proprio convincimento, della documentazione prodotta fuori dei termini di cui all'articolo 32, comma 1, del Dlgs 546/92 e, pertanto, è invalida la sentenza concretamente basata soltanto ed esclusivamente su tale tardiva produzione”.
Precedentemente, con sentenza n. 14624 del 2000, la Cassazione si era espressa sul punto chiarendo che “Le commissioni tributarie non possono esimersi dall'obbligo ex art. 7, 3° comma del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, di ordinare all'ufficio finanziario il deposito dei documenti che sono indispensabili per valutare la ammissibilità del ricorso. Ciò accade quando il contribuente impugni l'avviso di mora contestando, nel contempo, un atto pregresso autonomamente impugnabile - quale l'avviso di accertamento - che asserisca non gli sia stato notificato, e per valutare la ammissibilità del ricorso sia necessario acquisire l'avviso di accertamento notificato. In tali casi, ove l’Amministrazione depositi spontaneamente l'atto anche direttamente in udienza, e comunque senza rispettare il termine di venti giorni liberi prima dell'udienza di trattazione, fissato dall'art. 32 del d.lgs n. 546 del 1992 (applicabile nel giudizio d'appello per il richiamo dell'art. 61), il giudice deve prendere in esame il documento tardivamente depositato (salva restando l'opportunità del differimento dell'udienza ai sensi dell'art. 34 del d. lgs n. 546 del 1992). Infatti, il termine in questione che per le parti è perentorio, in quanto stabilisce la scadenza oltre la quale le stesse perdono la facoltà di effettuare produzioni difensive, non interferisce sul menzionato potere delle commissioni tributarie, esercitabile, in carenza di delimitazioni temporali, fino all'udienza di discussione La sentenza sembra interpreti come un obbligo la facoltà di cui al 3° comma dell'art. 7 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, almeno in caso di valutazione circa la ammissibilità del ricorso. Il che dovrebbe rendere molto più frequente l'esercizio, da parte del giudice, del potere ordinare il deposito di atti e documenti. E comunque, assai spesso, svincolerebbe l’Amministrazione dall'obbligo di rispettare il termine di cui all'art. 32 del d.lgs n. 546 del 1992.
Il progressivo affermarsi della tesi della perentorietà dei termini per il deposito dei documenti crea un imbarazzante contrasto tra l’art. 58 e l’art. 32 della disciplina sul contenzioso tributario, ma non è l’unico caso di inconciliabilità tra norme tributarie.Si pensi all’art. 32 del D.p.r. n. 600/73 che, nell’ipotesi di accertamento a seguito di invio di questionario, al comma 3, recita: "le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell'ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell'accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l'ufficio deve informare il contribuente in sede amministrativa contestualmente alla richiesta". Al comma 4 viene, inoltre, stabilito che "le cause di inutilizzabilità previste dal terzo comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato, all'atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa, le notizie, i dati, i documenti, i libri ed i registri, dichiarando, comunque, contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile". E’evidente che la disposizione, che ricalca il procedimento penale e la fase della chiusura delle indagini preliminari, si pone in netta antitesi con il principio della allegabilità illimitata di documenti, di cui all’art. 58 D.Lgs. 546/92. A tale interrogativo la dottrina tenta di dare una risposta, prospettando due possibili soluzioni improntate al "criterio di prevalenza": una soluzione, denominata "procedurale", che individua la prevalenza dell'articolo 58 del D. Lgs. n. 546/92, ed una seconda soluzione, denominata "sostanziale", che ritiene prevalente l'articolo 32 del D.p.r. 600/73.
A favore della prima soluzione la sentenza della Cassazione n. 11981/2003, in uno dei rari casi in cui ha affrontato la questione, ritiene che "in tema di accertamento delle imposte dirette, la mancata produzione di documenti, da parte del contribuente, in risposta al questionario previsto all'art. 32 del DPR n. 600/1973, non dà luogo a decadenza dalla produzione degli stessi in sede contenziosa, in difetto di ogni previsione, in proposito, negli artt. 32 e 33 del detto decreto”. Né si può estendere all'accertamento delle imposte sui redditi la preclusione, posta in materia di IVA dall'art. 52 del DPR n. 633/1972, all'utilizzabilità in sede amministrativa o contenziosa dei libri, registri, scritture e documenti non esibiti dal contribuente in sede di accessi, ispezioni e verifiche". In realtà, la Suprema Corte non specifica se la produzione dei documenti citati possa avvenire anche in secondo grado.
A favore della seconda tesi vale la considerazione che la norma, di cui all'articolo 32 del D.P.R. 600/73, può essere considerata una deroga al criterio generale, di cui all'articolo 58 del D. Lgs. n. 546/92, che tende a garantire il diritto alla difesa del contribuente e, contestualmente, a consentire all'Amministrazione di esercitare in modo più corretto il ricorso al metodo induttivo, sulla base del preventivo contraddittorio con la parte.
La sentenza di appello non tende all’annullamento della sentenza di primo grado, bensì a sostituirla mediante il riesame della controversia decisa: si ha, con esso, un gravame che opera una revisione della precedente istanza e non un nuovo giudizio il ché spiega, da un lato, il motivo per cui in appello non si possono proporre domande nuove né nuove prove (salvo che il giudice stesso non ritenga le prove domandate necessarie o la parte non provi di non averle potute produrre in primo grado) e, dall’altro, perché le questioni ed eccezioni, che non sono specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate.
Giurisprudenza.
Sentenza d’appello. Rinvio ad una decisione esterna. Assenza totale di motivazione Nella sentenza n. 19110 del 29/09/2005, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione ha statuito che è priva di motivazione la sentenza d’appello con la quale i Giudici si limitano ad affermare che la decisione dei primi Giudici, relativa ai soci, deve essere confermata perché è stata confermata la decisione relativa alla società partecipata. Così facendo, infatti, i Giudici rinviano ad una decisione esterna della quale non si conosce il contenuto sostanziale (e quindi le parti in causa non hanno la possibilità di verificare se siano state fornite risposte convincenti e legittime alle censure proposte con i motivi di appello) e non si sa se abbia acquistato la forza del giudicato formale, seppure esterno, ex art. 324 c.p.c., perché riverberi gli effetti probatori sul giudizio relativo ai soci.

SEZIONE SECONDA
DISCIPLINA DELLA TUTELA CAUTELARE NEL PROCESSO TRIBUTARIO E ALLA ESECUZIONE DELLE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE

Applicabilità o meno, nel processo tributario, del potere di sospensiva disciplinato dall'art. 373 c.p.c., sul presupposto della mancanza di disciplina, nel decreto sul contenzioso tributario, della tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo.
Più esattamente, le perplessità sarebbero alimentate da quanto statuito dall'art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992 che, al comma due, recita: "I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile".
Da ciò, considerata l'assenza nel suddetto decreto di una specifica disposizione per quanto concerne la tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo, sarebbero sorti dubbi interpretativi, anche di legittimità costituzionale, sulla portata del divieto espresso di rinvio di cui all'ultima parte dell'art. 49 del decreto citato.
A tal proposito, la circolare n. 98/E del 23 aprile 1996, precisa che il rinvio alle norme del codice di procedura civile, di cui all'art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 546/1992, è subordinato alle seguenti condizioni:
1) che nessuna norma del D. Lgs. n. 546/1992 disciplini la fattispecie sia pure mediante interpretazione estensiva;
2) che la norma processual-civilistica, astrattamente applicabile alla fattispecie, sia compatibile con quelle del decreto legislativo medesimo.
Con riferimento alla questione in esame, appare evidente la preclusione di cui al punto 2), posto che l'art. 47 del D. Lgs. n. 546/1992, statuendo, al comma 7, che "Gli effetti della sospensione cessano dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado", limita espressamente la tutela cautelare al primo grado di giudizio, fatta eccezione, come detto, per le sole sanzioni pecuniarie. Inoltre, l'art. 49 del decreto in esame esclude inequivocabilmente l'applicabilità dell'art. 337 del codice di procedura civile e, quindi, anche delle norme da quest'ultimo richiamate, tra cui lo stesso art. 373 citato.
Infatti, la anzidetta disciplina, con particolare riferimento agli artt. 47 e 49 del D. Lgs. n. 546/1992 più volte citato, è stata di recente sottoposta al vaglio della Consulta, a seguito dei sollevati dubbi di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non consente nel processo tributario, contrariamente a quanto previsto nell'ambito processual-civilistico con l'art. 373, la sospensione ope iudicis della esecutività della sentenza di secondo grado, in pendenza di ricorso per Cassazione o di ricorso alla Commissione tributaria centrale.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 165 del 25 maggio 2000, depositata il 31 maggio 2000, nel confermare che la disponibilità di misure cautelari costituisce componente essenziale della tutela giurisdizionale garantita dall'art. 24 della Costituzione, ha statuito che, nel processo tributario, "la tutela cautelare debba ritenersi imposta solo fino al momento in cui non intervenga una pronuncia di merito che accolga, con efficacia esecutiva, la domanda, rendendo superflua l'adozione di ulteriori misure cautelari, ovvero la respinga, negando in tal modo, con cognizione piena, la sussistenza del diritto e dunque il presupposto stesso della invocata tutela".
Giurisprudenza. Del resto, la particolarità innanzi evidenziata rientra nella discrezionalità del legislatore costantemente ammessa dalla giurisprudenza della Corte che ha escluso l'esistenza di un principio, costituzionalmente rilevante, di necessaria uniformità tra i vari
tipi di processo (sent. n. 18 del 21/01/2000).
Infine, si segnala l’ordinanza n. 708 del 15/06/2005 della Commissione Tributaria Regionale della Puglia – sez. di Bari – sez. 28 – con la quale in sede di appello è stata concessa la sospensione dell’esecuzione della sentenza di primo grado impugnata. Medesime conclusioni confermative sull’applicabilità si rinvengono nelle decisioni della Commissione Regionale di Campobasso 29/07/1998, Commissione Tributaria Regionale Lecce 11/07/2001 ed ancora Roma 22/09/1990 – Bologna 28/06/1996 – Trieste 16/12/1999 – Bolzano 04/03/2003. Contra Commissione Regionale Ancona 24/02/1997.

SEZIONE TERZA
RICORSO PER CASSAZIONE (art. 62 D. Lgs. n. 546/92)
l ricorso per Cassazione ricalca pedissequamente gli schemi processuali civilistici. Infatti, l’art. 62 prevede che “avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale può essere proposto ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c. ed al relativo procedimento si applicano le norme del codice stesso in quanto compatibili con le norme contenute nel presente decreto”.
Rappresenta un mezzo col quale si possono far valere soltanto errori del processo in quanto tale e vizi di legittimità della decisione.
Il ricorso per cassazione, a differenza del ricorso in appello, non ha un effetto devolutivo vero e proprio, nel senso che non introduce una rinnovazione del giudizio.
La Corte di Cassazione è giudice supremo della legalità delle sentenze emesse dai giudici di merito. La cognizione di essa è limitata al giudizio di diritto, sostanziale e processuale, ed è rivolta alla eliminazione degli errori di diritto che viziano la sentenza impugnata.
Gli errori di diritto possono essere di due tipi:
a) errores in judicando (vizi di giudizio), che sono gli errori in cui è incorso il giudice nel giudizio di diritto;
b) errores in procedendo, che sono gli errori di carattere procedurale.
Con ricorso per Cassazione possono essere impugnate, soltanto, le sentenze emanate dalle Commissioni Tributarie Regionali:
a) per motivi attinenti alla giurisdizione;
b) per violazione delle norme sulla competenza;
c) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto;
d) per nullità della sentenza o del procedimento;
e) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio.
In ordine alla lett. c) si precisa che le Circolari della Pubblica Amministrazione sono atti interni, destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l’attività degli organi inferiori e, quindi, hanno natura non normativa, ma di atti amministrativi. La loro violazione, pertanto, non è denunciabile in Cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 del c.p.c. (Cass., sez. trib., sent. n. 11449 del 30/05/2005).
Il termine utile per proporre ricorso per Cassazione, non diversamente da quanto prescrive l’art. 325 c.p.c., è di sessanta giorni dalla notifica della sentenza (c.d. termine breve). In caso di mancata notifica è di un anno e quarantasei giorni dal deposito della sentenza nella segreteria della Commissione Regionale (c.d. termine lungo), di cui all’art. 327, primo comma, c.p.c..
Ai sensi dell’art. 369 c.p.c., il ricorso va diretto alla Corte di Cassazione e nella cancelleria della Suprema Corte deve essere depositato, a pena di improcedibilità, nel termine di 20 giorni dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto.
IMPORTANTE! Il ricorso per Cassazione deve essere sottoscritto, con sanzione di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’albo speciale dei cassazionisti a norma dell’art. 33 dell’Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore. Deve essere, altresì, munito di procura speciale, a pena d’inammissibilità.
Ai sensi dell’art. 11 del r.d. 1611/1933, i ricorsi contro gli Uffici finanziari devono essere notificati presso l’Avvocatura Generale dello Stato in Roma – Via Dei Portoghesi, 12 –
La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n. 3118/2006, sconvolge l’orientamento adottato sino ad oggi dalla stessa, nel dichiarare l’inammissibilità (non sanabile con la costituzione in giudizio dell’amministrazione) del ricorso per Cassazione proposto contro l’Ufficio locale delle Entrate.
Infatti, nella stessa si asserisce che “Anche gli Uffici periferici dell’Agenzia, subentrati a quelli dei Dipartimenti delle Entrate, devono essere considerati – una volta che l’atto ha come destinatario l’ente – come organi dello stesso che, al pari del direttore, ne hanno la rappresentanza in giudizio, ai sensi degli artt. 163, comma 2°, n. 2 e 144-145 c.p.c.. Da ciò consegue, altresì, che la notifica della decisione, ai fini della decorrenza del termine breve per la proposizione del ricorso, può essere indifferentemente effettuata all’Agenzia presso la sua sede centrale ovvero presso il suo ufficio periferico; inoltre, che il ricorso per Cassazione può essere proposto anche nei confronti dell’ufficio periferico dell’Agenzia e, ovviamente, ad esso notificato”.
Insieme al ricorso, così come prescrive l’art. 369 c.p.c. devono essere depositati (anche in questo caso a pena di improcedibilità) i seguenti documenti: 1) il decreto di concessione del patrocinio gratuito, se il ricorrente ha chiesto ed ottenuto l’ammissione al patrocinio gratuito;
2) la copia autentica della decisione oggetto di ricorso accompagnata dalla relazione di notifica, se questa è avvenuta o comunque la copia contenente l’indicazione dell’avvenuta pubblicazione ai fini del calcolo del c.d. termine lungo;
3) la procura speciale se questa, in luogo di essere trascritta in margine od in calce all’atto, sia conferita con atto separato;
4) gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, fermo restando che questi non possono immutare la situazione processuale cristallizzatasi nei precedenti gradi di giudizio;
il che implica l’impossibilità di produzioni nuove, eccezion fatta soltanto per quelli che riguardano nullità della sentenza impugnata.
I documenti nuovi devono riguardare la nullità derivante da vizi propri della sentenza e non anche la nullità correlata a vizi dell’atto tributario oggetto dell’originaria opposizione o più genericamente alla attività anteriore alla pronuncia.
Ai sensi dell’art. 370 c.p.c., la parte contro la quale il ricorso è diretto, se intende contraddire deve farlo mediante controricorso da notificarsi al ricorrente entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso. In mancanza di tale notificazione, essa non può presentare nemmeno le memorie scritte previste dall’art. 378 c.p.c. (cioè quelle da depositare nel termine di cinque giorni prima dell’udienza di discussione) ma può soltanto partecipare alla discussione orale.

SEZIONE QUARTA
RICORSO PER REVOCAZIONE

1. Premessa
La revocazione, unitamente all'appello ed al ricorso per Cassazione, costituisce uno degli strumenti processuali previsti dall'art. 50 del D. Lgs. n. 546 del 1992 per impugnare le sentenze delle Commissioni Tributarie e, specificamente, costituisce il mezzo di cui dispone la parte soccombente per eccepire allo stesso Giudice che ha emesso la sentenza gli errori in cui questi è incorso nel giudicare in punto di fatto.
Detto mezzo di impugnazione è detto "a critica vincolata", in quanto è proponibile soltanto nei casi particolarmente gravi espressamente previsti dall'art. 395 c.p.c. e comporta l'inammissibilità sia dei motivi non compresi nella tassativa elencazione recata dalla norma sia dei motivi di nullità concernenti le precedenti fasi processuali, che restano deducibili con le ordinarie impugnazioni.
Occorre rilevare che, anche prima dell'emanazione della riforma del processo tributario del 1992, l'istituto della revocazione trovava già autonoma collocazione nell'ambito della disciplina processuale tributaria, i cui antecedenti storici sono costituiti dall'art. 44 del R.D. 8 luglio 1937 n. 1516 (in cui era però previsto solamente con riguardo alle pronunce del giudice di primo grado) e dall'art. 41 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, che ha operato un più ampio rinvio alla disciplina sulla revocazione delle sentenze prevista dal codice di rito.
Tuttavia, solo con l'introduzione nella disciplina processuale tributaria dei citati artt. da 64 a 67 del D.Lgs. n. 546 del 1992 l'istituto ha ricevuto una compiuta disamina da parte del legislatore, che ha mutuato in larga parte le disposizioni recate dal codice di rito.

2. I motivi della revocazione.
In particolare, l'art. 64 individua con precisione le sentenze revocabili ed i motivi di revocazione, riportando, nei suoi primi due commi, il contenuto degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile. Essi sono:
1) qualora le sentenze siano effetto del dolo di una parte in danno dell’altra;
2) se le prove in base alle quali si è giudicato sono state riconosciute o dichiarate false;
3) se dopo la sentenza sono stati rinvenuti documenti decisivi che non si erano potuti produrre in giudizio per cause di forza maggiore o per fatto dell’altra parte;
4) se la sentenza è effetto di errore di fatto risultante dagli atti o dai documenti della controversia;
5) se la sentenza è contraria ad altra precedente passata in giudicato e pronunciata fra le stesse parti;
6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice accertato con sentenza penale passata in giudicato.
In ordine al n. 4, si precisa che è inammissibile il motivo di ricorso per Cassazione con il quale si denunzi che la Commissione Tributaria Regionale ha ignorato documenti acquisiti agli atti di causa. Questo genere di errore, infatti, non corrisponde ad alcuno dei casi contemplati dall’art. 360 c.p.c. ed è, quindi, onere del ricorrente esperire lo specifico rimedio dell’errore revocatorio di cui al citato art. 395, comma primo, n. 4 (Cass., sez. trib., sent. n. 10090 del 13/05/2005).
Il comma 3 dello stesso articolo, analogo al comma 2 dell'art. 396, invece, è relativo ai motivi di revocazione che intervengono durante il corso del termine per l'appello e prevede la proroga del termine stesso dal giorno dell'avvenimento in modo da raggiungere i sessanta giorni da esso stabiliti dall'art. 51 del D.Lgs. n. 546 del 1992 (nel processo civile il termine è sempre di trenta giorni).
Giurisprudenza. La giurisprudenza ha più volte sottolineato che l'espressione "accertamenti di fatto" deve essere intesa in senso ampio e, quindi, riguardare tutti i giudizi di carattere storico-ricostruttivo relativi a "fatti" di qualsiasi natura (fatti umani, naturali, atti giuridici, eccetera), ivi compresi quelli espressi in sentenze meramente processuali o consistenti in un elemento materiale della fattispecie formale attinente al processo (Cass., SS.UU., sent. 8 febbraio 1984, n. 101).

3. Organo competente (art. 65 D. Lgs. n. 546/92, primo comma)
Competente per la revocazione è la stessa Commissione Tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata.

4. Proposizione del ricorso e suo contenuto (art 65 D. Lgs. n. 546/92, secondo comma).
Il ricorso deve contenere, a pena d’inammissibilità, le seguenti indicazioni:
1) la Commissione Tributaria a cui è diretto;
2) le generalità del ricorrente e delle altre parti nei cui confronti è proposto;
3) gli estremi della sentenza impugnata;

4) la specifica indicazione del motivo di revocazione;
5) per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c., la prova dei fatti;
6) il giorno della scoperta della falsità dichiarata o del recupero del documento;
7) la sottoscrizione del difensore abilitato del ricorrente, con l’indicazione del relativo incarico.
Il ricorso è proposto mediante notifica, consegna o spedizione dell’atto a tutte le parti che hanno partecipato al giudizio.

5. Termini per ricorrere
Riguardo ai termini per ricorrere ed alla loro decorrenza, è necessario distinguere a seconda che si tratti di revocazione ordinaria o straordinaria, e che la stessa sentenza venga, o meno, notificata ad istanza di parte. La revocazione ordinaria, di cui all’art. 395 nn. 4 e 5 del c.p.c., fondata quindi su vizi palesi intrinseci alla sentenza e come tali rilevabili nella sentenza stessa, deve essere proposta entro il termine ordinario di 60 giorni dalla notificazione della sentenza o, ex art. 38, comma 3 del D.Lgs. 546, entro il termine annuale in assenza di notificazione.
Per la revocazione straordinaria, invece, ovvero quella esperibile in base ai motivi di cui ai nn.1, 2, 3 e 6 dell’art.395 c.p.c., essendo fondata su vizi occulti, in quanto esteriori alla sentenza, deve essere proposta nel termine di 60 giorni decorrenti dal momento in cui la parte è venuta a conoscenza del vizio legittimante.
Entro i 30 giorni successivi alla sua proposizione, il ricorso deve essere depositato nella segreteria della Commissione Tributaria adita.

6. Svolgimento del giudizio e decisione.
Le fasi del giudizio di revocazione sono analoghe a quelle dei giudizi ordinari innanzi le Commissioni tributarie.
Quando la Commissione riscontra la presenza dei motivi di revocazione decide il merito della causa e detta ogni provvedimento consequenziale.
L'art. 67, infine, concerne la decisione del giudizio di revocazione da parte della Commissione che ha riscontrato la sussistenza dei motivi di revocazione. La decisione è data con sentenza, contro cui sono ammessi gli stessi mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata.
Le sentenze delle Commissioni tributarie provinciali non sono impugnabili per revocazione ordinaria in quanto, se i termini per la loro impugnazione in appello non sono scaduti, i motivi di impugnazione di cui all'art. 395 del codice di procedura civile, nn. 4) e 5), devono essere dedotti come motivi di appello. Se invece i termini sono scaduti, e l'appello non è stato presentato, è proponibile solo la revocazione straordinaria.
A differenza dal ricorso per Cassazione (proponibile avverso gli errori nel giudizio di diritto per violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali e i vizi logici del ragionamento), l'elemento fondamentale che caratterizza la revocazione è dato dalla sua limitazione agli errori nel giudizio di fatto, il che è espressamente evidenziato nel primo comma dell'art. 64 del D.Lgs. n. 546 del 1992, laddove dichiara proponibile il rimedio contro le sentenze che "involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili o non sono state impugnate".
Esemplificazione. Dagli atti risulta che un avviso di accertamento è stato notificato il giorno 30 dicembre 2000, con termine a pena di decadenza in scadenza il 31 dicembre 2000. Nella sentenza della Commissione tributaria regionale:
1) Il giudice afferma che l'atto è stato notificato il 2 gennaio 2001, e quindi oltre il termine di decadenza, pertanto annulla l'atto. In questo caso la sentenza è impugnabile per revocazione;
2) il giudice afferma che l'atto è stato notificato il 31 dicembre 2000, e quindi oltre il termine di decadenza, pertanto annulla l'atto. In tale caso l'errore non ha alcuna efficacia causale sulla sentenza, che è invece frutto di violazione di legge. La sentenza non è impugnabile per revocazione ma per Cassazione.
Giurisprudenza. La Corte di Cassazione, sez. trib., con l’ordinanza n. 10812 del 09/03 – 23/05/2005, ha chiarito che l’eventuale errore lamentato dal contribuente in sede di giudizio di appello doveva essere evidenziato in sede di revocazione avverso la sentenza di appello e non con ricorso per Cassazione.
Infatti, i giudici di legittimità hanno rilevato che il preteso vizio revocatorio può essere dedotto ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c. solo se abbia inciso direttamente ed esclusivamente sulla decisione della Cassazione di cui si chiede la revocazione, mentre se riguarda l’interpretazione dell’atto espressa nella decisione di merito, riferendosi ad atti o documenti che hanno contribuito a formare il convincimento del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, il vizio riscontrabile deve essere censurato soltanto con i mezzi esperibili avverso la sentenza di merito (Cass., sent. n. 13366/2003).

CAPITOLO TERZO
GIUDIZIO DI “OTTEMPERANZA” (art. 70 D. Lgs. n. 546/1992)

1. Premessa
Dopo la scadenza del termine entro il quale dovevano essere adempiuti da parte dell’ufficio gli obblighi imposti da una sentenza divenuta definitiva, il contribuente può presentare un ricorso per chiedere che venga data esecuzione alla sentenza.
Il giudizio di ottemperanza può essere alternativo o cumulativo con il processo civile di esecuzione (così, Corte di Cassazione, sentenza n. 4126 dell’01/03/2004).
Il giudice di ottemperanza si sostituisce all’Amministrazione inadempiente ponendo in essere l’attività che questa avrebbe dovuto compiere per realizzare concretamente gli effetti derivanti dalla sentenza da eseguire; pertanto, la sua attività cade sotto un regime diverso da quello degli atti amministrativi, in quanto costituisce esplicazione dell’esercizio di una funzione giurisdizionale.
Infatti, più volte la giurisprudenza ha affermato che le attività esecutive, sia se effettuate direttamente dalla Commissione sia se demandate ad un membro del collegio giudicante o ad un commissario ad acta, sono pur sempre attività giurisdizionali, anche se i relativi effetti giuridici vanno imputati alla sfera della Pubblica Amministrazione.
Il ricorso è proponibile:
1) dopo la scadenza del termine entro il quale è prescritto dalla legge l’adempimento da parte dell’ufficio del Ministero dell’Economia e delle Finanze o dell’ente locale dell’obbligo posto a carico della sentenza;
2) in mancanza del termine di cui al precedente n. 1), dopo trenta giorni dalla loro messa in mora a mezzo di ufficiale giudiziario e fino a quando l’obbligo non sia estinto.
La parte che vi ha interesse può chiedere l’ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza passata in giudicato mediante ricorso da depositare in doppio originale:
1) alla segreteria della Commissione Tributaria Provinciale, quando la sentenza passata in giudicato sia stata da essa pronunciata;
2) alla segreteria della Commissione Tributaria Regionale o sua Sezione staccata, in ogni altro caso.
Uno dei due originali del ricorso è comunicato, a cura della segreteria della Commissione Tributaria, all’ufficio del Ministero dell’Economia e delle Finanze o all’ente locale obbligato a provvedere.

2. Contenuto del ricorso
Il ricorso indirizzato al Presidente della Commissione deve contenere:
- la sommaria esposizione dei fatti che ne giustificano la proposizione;
- la precisa indicazione, a pena di inammissibilità, della sentenza passata in giudicato di cui si chiede l’ottemperanza;
- la produzione in copia della suddetta sentenza;
- la produzione dell’originale o copia autentica dell’atto di messa in mora notificato, se necessario.

3. Costituzione dell’Ufficio
Entro venti giorni dalla comunicazione, l’ufficio del Ministero dell’Economia e delle Finanze o l’ente locale può trasmettere le proprie osservazioni alla Commissione Tributaria, allegando la documentazione dell’eventuale adempimento.

4. Procedimento.
1) Il Presidente della Commissione Tributaria assegna il ricorso alla stessa sezione che ha pronunciato la sentenza.
2) Il Presidente della sezione fissa il giorno per la trattazione del ricorso in camera di consiglio non oltre novanta giorni dal deposito del ricorso e ne viene data comunicazione alle parti almeno dieci giorni liberi prima a cura della segreteria.
3) Il collegio, sentite le parti in contraddittorio ed acquisita la documentazione necessaria, adotta con sentenza i provvedimenti indispensabili per l’ottemperanza, attenendosi soltanto agli obblighi risultanti espressamente dal dispositivo della sentenza e tenuto conto della relativa motivazione.
4) Tutti i provvedimenti sono immediatamente esecutivi.
5. Nomina del Commissario ad acta.
Il collegio, se lo ritiene opportuno:
- può delegare un proprio componente;
- o nominare un commissario ad acta,
al quale fissa un termine congruo per i necessari provvedimenti attuativi e determina il compenso a lui spettante, secondo le disposizioni della legge n. 319 dell’08/07/1980 e successive modificazioni ed integrazioni.
Tutti i provvedimenti sono immediatamente esecutivi.

6. Compiti del Commissario ad acta.
In tale particolare veste, quale longa manus del giudice, il commissario ad acta deve porre in essere le seguenti operazioni:
1) invito all’ufficio fiscale, spedito con raccomandata A.R., a provvedere spontaneamente all’effettivo pagamento entro e non oltre quindici giorni dal ricevimento della raccomandata stesa;
2) decorso infruttuosamente il suddetto termine, deposito specimen di firma alla Banca d’Italia, Tesoreria Provinciale dello Stato. A tal proposito, è bene chiarire che per il rimborso di tutti i versamenti diretti nonchè per le spese di giustizia è competente al pagamento la Banca d’Italia; invece, per i rimborsi dei ruoli, è sempre il competente il Concessionario della riscossione;
3) ritiro del decreto della Commissione Tributaria in cui sono indicati gli importi da rimborsare nonchè il compenso del commissario ad acta, secondo le disposizioni della Legge 8 luglio 1980 n. 319 e successive modificazioni e integrazioni;
4) infine, con il suddetto decreto, sempre presso l’Ufficio fiscale, firma dei relativi ordinativi di pagamento da inviare alla Banca d’Italia. Sugli speciali ordinativi di pagamento in conto sospeso, il Commissario ad acta deve scrivere la suddetta frase “trattasi di pagamenti da imputare al bilancio dello Stato, effettuati in qualità di funzionario delegato”. Nel caso di rimborso di cartelle esattoriali, invece, l’ordinativo di pagamento deve essere inviato direttamente (anche in via telematica) al concessionario della riscossione, sempre previa firma dello stesso commissario ad acta; il capitolo di spesa delle spese di giustizia è il 3545;
5) comunicazioni alle parti interessate dei relativi ordinativi di pagamento per riscuotere materialmente le somme;
6) una volta accertato l’effettivo pagamento delle somme, comunicazione alla Commissione Tributaria di tutti i provvedimenti emanati ed eseguiti, per dichiarare chiuso il giudizio di ottemperanza;
7) da ultimo, sempre su autorizzazione della Commissione, informativa alla Procura della Corte dei Conti per gli eventuali procedimenti contabili per danno erariale.

7. Chiusura del procedimento.
Il collegio, eseguiti i provvedimenti di competenza e preso atto di quelli emanati ed eseguiti dal componente delegato o dal commissario ad acta, dichiara chiuso il procedimento con ordinanza.
Contro la sentenza della Commissione Tributaria è ammesso soltanto ricorso per Cassazione per inosservanza delle norme sul procedimento.
In ogni caso, il giudizio di ottemperanza è alternativo a quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile per l’esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo.
Giurisprudenza.
Sussiste la giurisdizione ordinaria se il rimborso dell’imposta pagata non è più in discussione.
Secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sent. n. 18120 del 13/09/2005, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario ove l’Amministrazione Finanziaria abbia comunque riconosciuto il diritto al rimborso e la quantificazione delle somme dovute, sicchè non residuino questioni circa l’esistenza dell’obbligazione tributaria, il quantum del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato.
8. Finalità del giudizio di ottemperanza.
Il giudizio di ottemperanza si differenzia ulteriormente rispetto al concorrente giudizio esecutivo civile, in quanto il suo scopo non è quello di ottenere l’esecuzione coattiva del comando contenuto nel giudicato ma piuttosto quello di rendere effettivo quel comando, anche e specialmente se privo dei caratteri di puntualità e precisione, tipici del titolo esecutivo;
Ed è proprio la natura “sui generis” di tale giudizio di ottemperanza, caratterizzato da un misto di poteri cognitori ed esecutivi, nel quale il giudice dell’ottemperanza deve, prioritariamente, verificare il dispositivo della sentenza, rimasta inapplicata, per individuare gli obblighi ivi previsti, valutare, quindi, la portata di tale dispositivo in una con la motivazione, per poi svolgere la tipica attività di merito dell’ottemperanza, che è quella dell’adozione di provvedimenti in luogo dell’Amministrazione finanziaria inadempiente, che richiede una particolare attività del giudice, rivolta ad individuare il complessivo oggetto dell’ottemperanza per il ripristino dell’integrità della posizione del ricorrente, per poter realizzare non un’espropriazione di beni propria dell’esecuzione ordinaria, ma la sostituzione coattiva dell’attività amministrativa che l’ufficio avrebbe dovuto svolgere e non ha svolto o ha svolto in maniera difforme dal giudicato.
Giurisprudenza. In tema di giudizio di ottemperanza la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 4126 del 01/03/2004, ha ribadito i seguenti principi:
1) il ricorso per ottemperanza è ammissibile ogniqualvolta debba farsi valere l’inerzia della Pubblica Amministrazione rispetto al giudicato ovvero la difformità specifica dell’atto posto in essere dall’Amministrazione rispetto all’obbligo processuale di attenersi all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire (Consiglio di Stato 992/98); e ciò indipendentemente dall’attivazione di altra eventuale procedura esecutiva;
2) infatti, il giudizio di ottemperanza, in quanto rivolto a rendere effettivo, mediante idonei provvedimenti, l’ordine di esecuzione contenuto nella sentenza passata in giudicato, di cui costituisce un’integrazione ed un compimento (Circolare Ministeriale n. 98/E del 23/04/1996), deve ritenersi complementare (Cassazione, a Sezioni Unite, sentenza n. 1593/94) all’eventuale procedimento esecutivo, senza che possa ipotizzarsi una anteticità pregiudiziale dell’esecuzione forzata rispetto al giudizio di ottemperanza;
3) infatti, proprio il comportamento dell’ufficio fiscale inerte, esclusivo, o peggio contrario al giudicato, costituisce condizione dell’azione di ottemperanza al giudicato (Consiglio di Stato, 652/84; 779/95; 328/96).
4) Di contrario avviso è la sentenza n. 80/34 del 2003 della Commissione Tributaria Provinciale di Milano Sez. XXXIV, secondo la quale il giudizio di ottemperanza non può essere attivato nel caso in cui la sentenza di cui si chiede l’adempimento abbia soltanto “accertato” il credito del ricorrente nei confronti del fisco e non anche “condannato” l’ufficio fiscale al rimborso del credito.
IMPORTANTE! Esecuzioni forzate – copie senza bollo. La copia di una sentenza per procedere a esecuzione forzata non paga l’imposta di bollo. Il chiarimento è stato fornito dalla risoluzione n. 106 emessa dall’Agenzia delle Entrate. L’interpellante chiedeva di conoscere se fosse dovuta l’imposta di bollo sulle copie di due sentenze di Commissioni tributarie provinciali richieste in forma esecutiva al fine di procedere a esecuzione forzata nei confronti dell’Ufficio locale resistente, condannato al rimborso delle spese del giudizio, ma rimasto inadempiente. La Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate ha accolto la tesi dell’esenzione del pagamento del bollo prospettata dal contribuente, chiarendo che, nell’ambito del processo tributario, l’esclusione dal pagamento del contributo unificato (e il conseguente assoggettamento all’imposta di bollo) è riferita ai soli gradi di giudizio che si svolgono dinanzi alle Commissioni tributarie.
Infatti, è stato più volte ribadito che il giudice tributario di ottemperanza offre garanzie non inferiori a quello amministrativo.
Nel giudizio di ottemperanza è possibile chiedere anche gli interessi anatocistici e la rivalutazione monetaria (in tal senso, Commissione Tributaria Regionale del Lazio – Sez. XIX -, con la sentenza n. 166 del 22/03/2000, e Commissione Tributaria Regionale – Sez. 6 – dell’Abruzzo, con la sentenza n. 40 del 02/04/2001).
Giurisprudenza. Inoltre, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 358 del 14/01/2004, ha previsto il giudizio di ottemperanza anche nell’ipotesi di giudicato parziale, pur mancando la relativa certificazione della cancelleria o della segreteria.
Prassi. L’Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Normativa e Contenzioso -, per i giudizi di ottemperanza nel processo tributario, ha emanato la circolare n. 5/E del 04 febbraio 2003.
Sia le Agenzie delle Entrate che i commissari ad acta, per accelerare le procedure
di rimborso, possono utilizzare la particolare procedura del conto sospeso, di cui all’art. 14, comma 2, del D.L. 669/96, convertito nella legge n. 30/97, come più volte ribadito anche dalla Banca d’Italia.
Infatti, lo speciale ordine in conto sospeso deve essere utilizzato solo nella comprovata impossibilità di eseguire le procedure ordinarie di pagamento a causa di carenza di disponibilità finanziarie.
Giurisprudenza. Giudici “aperti” sull’ottemperanza: ricorso di legittimità sempre ammesso Il ricorso per Cassazione contro le sentenze emesse in sede di ottemperanza è ammesso per qualunque violazione di legge. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4596 del 03/04/2005, ha stabilito che “non può non ritenersi sempre operante la norma di rango primario dell’art. 111 della Costituzione, che consente il ricorso per violazione di legge, come suprema garanzia giurisdizionale”.
L’art. 70, comma 10, del D. Lgs. n. 546/92 consente, infatti, che il ricorso in Cassazione sia limitato ai soli vizi relativi al procedimento, in base all’art. 360, primo comma, n. 4), c.p.c.. contro la sentenza del giudice tributario che adotta i provvedimenti indispensabili per l’ottemperanza è ammesso, quindi, soltanto il ricorso per Cassazione per l’inosservanza delle norme sul procedimento. La fase eventuale innanzi alla Cassazione non involge alcuna cognizione di merito ma è diretta solamente a verificare se sussiste la presenza di determinati errori compiuti nel corso del giudizio.

CAPITOLO QUARTO
CASI PARTICOLARI

1.. Ingiunzioni fiscali ai giudici tributari.
I ricorsi contro le ingiunzioni fiscali vanno indirizzati alle Commissioni Tributarie e non al giudice ordinario. Ciò è quanto hanno affermato le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10958, depositata il 25 maggio 2005, intervenendo su una questione che riveste particolare interesse soprattutto per le province e per i comuni i quali, per quanto attiene alla riscossione coattiva dei tributi di loro spettanza, possono avvalersi, in luogo del ruolo e della susseguente cartella di pagamento, dell’ingiunzione disciplinata dal regio decreto 14 aprile 1910, n. 639. La Suprema Corte sconfessa così coloro che ritenevano che la giurisdizione appartenesse al giudice ordinario, vuoi perché nell’art. 19 del D. Lgs. n. 546/92, contenente l’elencazione degli atti impugnabili, non è indicata l’ingiunzione, vuoi perché tale atto avrebbe rivestito le caratteristiche di un provvedimento esecutivo.
Il termine per proporre ricorso è di 60 giorni dalla notifica; qualora, invece, l’ingiunzione riguardi entrate diverse da quelle tributarie il giudice competente sarà, ratione valoris, il giudice di pace o il tribunale e l’eventuale opposizione dovrà essere proposta entro 30 giorni dalla notifica.
L’ingiunzione consiste nell’ordine, emesso dal competente ufficio dell’ente creditore, di pagare la somma dovuta entro trenta giorni. Non è un atto dell’espropriazione forzata ma un atto avente la stessa funzione della cartella e che, pertanto, deve poter essere impugnata come una cartella.
Ovviamente, in virtù di quanto stabilito dal comma terzo dell’art. 19 del D. Lgs. n. 546/92 se l’ingiunzione è successiva alla notifica di atti autonomamente impugnabili (quale, per es., l’avviso di liquidazione o di accertamento) i motivi del ricorso potranno riguardare solo vizi propri dell’ingiunzione e non potranno concernere presunte illegittimità degli atti presupposti.

2. IL NOTAIO NON PUÒ CHIEDERE IL RIMBORSO DELL’IMPOSTA DI REGISTRO VERSATA IN PIÙ.
Con la sentenza n. 9440 del 6 maggio 2005, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione ha confermato il principio per cui il difetto di “legitimatio ad causam” del ricorrente, ancorché non dedotto dalle parti, è elemento costitutivo dell’azione, la cui carenza, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, determina l’inammissibilità del ricorso introduttivo.
In particolare, la Suprema Corte ha statuito che il notaio, nella qualità di agente rogante, è solo un responsabile d’imposta – estraneo al rapporto tributario – ed obbligato al pagamento dell’imposta soltanto per fatti e situazioni riferibili ad altri soggetti (art. 64, comma terzo, d.p.r. n. 600 del 29/09/1973).
Conseguentemente, il notaio non è legittimato a chiedere il rimborso delle somme pagate in eccedenza a titolo di imposta di registro ma può soltanto esercitare, in virtù del citato art. 64, l’azione di rivalsa per il recupero delle somme pagate al posto dei soggetti passivi d’imposta.
In altri termini, il ragionamento della Suprema Corte nasce dalla seguente domanda: come deve essere considerato – ai fini della legitimatio ad causam – il pubblico ufficiale (il notaio) che, nell’espletamento della propria attività, è obbligato (ex art. 10 d.p.r. n. 131 del 26/04/1986) a chiedere la registrazione dell’atto ricevuto ed a pagare l’imposta principale in solido con le parti nel cui interesse è richiesta la registrazione stessa?
Per i giudici di legittimità non ci sono dubbi: il notaio non è legittimato a chiedere il rimborso dell’imposta versata in eccedenza.
L’illustrazione dei motivi prende spunto dalla natura dell’imposta di registro che colpisce, in generale, il trasferimento di ricchezza ed ha come soggetti passivi solo le parti contraenti. L’obbligazione tributaria, pertanto, si costituisce tra l’Amministrazione Finanziaria ed i soggetti cui si ricollega il presupposto impositivo, quale manifestazione della capacità contributiva.
Solo le parti contraenti, così come individuate nell’atto soggetto a registrazione, sono obbligate a corrispondere la somma oggetto della prestazione tributaria e, di conseguenza, hanno il diritto di conoscere il quantum della pretesa erariale ed, eventualmente, in caso di pagamento indebito, richiederne il rimborso.
Il notaio è soltanto un soggetto che il legislatore affianca al reale soggetto passivo del tributo non per la sua partecipazione al presupposto d’imposta, certamente riferibile ad altri, ma perché pone in essere fatti ulteriori e diversi dal presupposto stresso ai quali la legge ricollega – ai fini della tutela del c.d. interesse fiscale previsto dall’art. 53 Cost. – l’obbligo del pagamento del tributo, cioè della stessa somma dovuta da soggetto passivo d’imposta (Cass., sez. I, n. 12066 del 27/10/1999). Del resto, se così non fosse, cioè se si ammettesse l’autonoma legittimazione del notaio, si potrebbe arrivare al seguente paradosso: avere la contemporanea pendenza di due giudizi per il rimborso dell’imposta di registro – uno posto in essere dal notaio e l’altro dal contribuente – con due sentenze che, una volta passate in giudicato, esporrebbero l’Amministrazione finanziaria a due possibili procedure esecutive aventi lo stesso oggetto. L’unica eccezione riguarda le sanzioni.
In tale ipotesi, per il noto principio della responsabilità personale in materia sanzionatoria, non potrà essere che il notaio stesso a difendersi in proprio per le imputazioni a lui ascrivibili ai sensi degli artt. 69 e ss. del d.p.r. n. 131/1986.

3. CONTROVERSIE TRA SOGGETTO ATTIVO E SOGGETTO PASSIVO DELLA RIVALSA. DEVOLUZIONE ALLA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO
Con la sentenza n. 9191 del 4 maggio 2005, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alle controversie riguardanti il rapporto tra cedente e cessionario in materia di rivalsa dell’imposta sul valore aggiunto.
La pronuncia, richiamando alcuni precedenti delle stesse Sezioni unite (sentt. n. 6632 del 26/04/2003 e 11/02/2003, n. 1995) ha posto in evidenza che le controversie in materia IVA tra cedente e cessionario in ordine alla rivalsa dell’imposta “non attengono al rapporto tributario, non essendo il cessionario soggetto passivo di imposta, ed esulano, pertanto, dalle attribuzioni giurisdizionali delle Commissioni tributarie per rientrare in quelle del giudice ordinario”. In particolare, nelle due pronunce del 2003 si precisa che il credito (IVA) fatto valere dal cedente in via di rivalsa non ha carattere tributario. Infatti, prendendo in esame la disciplina dell’imposta sul valore aggiunto, l’obbligazione tributaria, secondo l’art. 17 del d.p.r. n. 633/1972, sorge a carico del cedente del bene o del prestatore di servizio. Di conseguenza, il cessionario del bene o il committente del servizio è assoggettato, ai sensi dell’art. 18 del sopra citato decreto, al diritto-dovere del cedente o prestatore di rivalersi della somma versata all’erario addebitandola sul corrispettivo.
Pertanto, il cessionario o committente non è debitore dell’imposta e non è mai interlocutore dell’Amministrazione finanziaria.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. V, n. 8783 del 27/06/2001 e n. 5427 del 28/04/2000 ha fatto una distinzione per i rapporti che discendono dal compimento di ogni operazione imponibile ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Secondo tale orientamento, ai fini delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi, occorre distinguere il rapporto tra:
1) l’Amministrazione finanziaria e il cedente, relativamente al pagamento dell’imposta;
2) il cedente e il cessionario, in ordine alla rivalsa;
3) l’Amministrazione finanziaria e il cessionario per ciò che attiene alla detrazione dell’imposta assolta in via di rivalsa.
Sulla base di tale principi, la Suprema Corte ha più volte concluso che l’Amministrazione finanziaria (estranea al rapporto cedente-cessionario) non può essere tenuta a rimborsare direttamente al cessionario o committente quanto dallo stesso versato in via di rivalsa al cedente o prestatore del servizio. Ne consegue che le controversie tra il soggetto attivo e il soggetto passivo dell’imposta esulano dalle attribuzioni giurisdizionali delle Commissioni tributarie di cui all’art. 2 del D. Lgs. n. 546/92, come modificato dall’art. 12 della L. n. 448 del 2001.
Per completezza di analisi, si evidenzia che di recente la stessa Suprema Corte ha rimesso, con ordinanza n. 1015 del 19/01/2005, alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, la questione concernente una controversia su un rimborso chiesto dal cessionario a causa di un versamento dell’imposta sul valore aggiunto addebitatagli in fattura in via di rivalsa in misura superiore a quella effettivamente dovuta.

4. ACCERTAMENTO NOTIFICATO AL CURATORE
La Corte di Cassazione (sent. n. 3094 del 17/03/1995 – n. 14987 del 20/11/2000 – n. 3427 dell’08/03/2002) ha affermato che quando al curatore del fallimento è notificato un accertamento con riguardo ai redditi dichiarati dall’imprenditore fallito e l’ufficio fallimentare si disinteressi del rapporto tributario in contestazione, si deve ritenere giusta l’interpretazione sistematica degli artt. 43 L. F. e 16 d.p.r. n. 636/1972, che il fallito conserva la capacità processuale in ordine alle situazioni giuridiche non comprese di fatto nella massa fallimentare. Ha aggiunto, altresì, che il termine per impugnare decorre solo dal momento in cui l’accertamento stesso sia portato a sua conoscenza.

Riferimenti legislativi
- Regio Decreto n. 1611 del 30/10/1933;- D.p.r. n. 600 del 29/09/1973;- D.p.r. n. 602 del 29/09/1973;
- Legge n. 319 dell’08/07/1980;
- D.P.R. n. 131 del 26/04/1986;
- Legge n. 353 del 26/11/1990;
- Legge n. 413 del 30/12/1991;
- D. Lgs. n. 545 e n. 546 del 31/12/1992;
- D. Lgs. n. 300 del 30/07/1999;
- D. Lgs. n. 74 del 10/03/2000;
- Legge n. 448 del 28/12/2001;
- Circolare n. 98/E del 23/04/1996;
- Circolare n. 5/E del 04/02/2003.


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