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Antonio Polito: Noi padri sindacalisti cresciamo i figli come bamboccioni
La figura paterna diventa sempre più materna, smettendo di essere uno stimolo di ribellione e crescita

L’esatto contrario della celebre lezione di Steve Jobs. Il geniale fondatore di Apple stimolava i giovani a restare «affamati e folli», i padri di oggi li educano invece a sentirsi sazi e a essere conformisti.
È la tesi di «Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli», il libro di Antonio Polito edito da Rizzoli da oggi in libreria. Anticipiamo un brano dall’introduzione.

Non contro i padri che abbiamo avuto, ma contro i papà (e i papi e i papini e i paponi) che siamo stati e siamo.
I padri che abbiamo avuto hanno fatto il loro. Non che ci fossero molto, né che noi gli abbiamo permesso di esserci tanto, nelle nostre vite: non disponevano di tutto il tempo libero di cui disponiamo noi, all’epoca loro il pane era nero e la fatica era tanta.
Ci aiutarono con il loro esempio, con i loro consigli, con la loro guida, tranne rari ed encomiabili casi. Ma si prestarono a fare ciò che da mondo è mondo un padre deve fare: opporsi al figlio. Diventarne la controparte. Incarnare uno stile di vita diverso. Impersonare il passato.
Consentire che il figlio gli si rivolti contro, e così facendo conquisti la sua emancipazione. Perché se non hai un padre da cui allontanarti, non c’è modo di avvicinarti all’età adulta e al futuro. Io me ne sono accorto perfino fisicamente quando mio padre se n’è andato: era stato proprio sfidando la sua autorità morale, ribellandomi a quel costante richiamo al senso del dovere ora scomparso insieme con lui, che ho costruito l’individuo che sono. Per questo è così doloroso perdere i padri, per questo dopo ci sentiamo così soli.


Noi papà di oggi invece vogliamo fare i fratelli, non i padri.
Vogliamo aderire al progetto di vita dei nostri figli, invece di lasciare che si modelli per opposizione al nostro. Vogliamo aiutarli a realizzarsi senza comprendere che l’unica forma di realizzazione è l’auto-realizzazione. Diventiamo un muro di gomma contro il quale non c’è nessun gusto a sbattere, irritante e indisponente proprio perché non si può abbattere. Contro i mattoni dei solidi muri edificati dai nostri padri ci siamo fatti male, a furia di dare capocciate; ma che soddisfazione quando abbiamo aperto una breccia e abbiamo visto, dall’altra parte, la nostra vita così come ce l’eravamo conquistata.
In un celebre discorso ai laureandi dell’università di Stanford nel 2005, Steve Jobs, un uomo che era stato rifiutato dal padre naturale alla nascita, indicò loro quella che riteneva essere la ricetta per avere successo e per fare il successo della società in cui avrebbero vissuto: «Stay hungry, stay foolish». Che si può tradurre così: «Restate affamati, restate folli».
Necessità e genialità. Bisogno e talento. Gli ingredienti del progresso.
Ecco, noi papà di oggi stiamo lanciando ai nostri figli il messaggio opposto: «Restate sazi, restate conformisti». Affamati non vogliamo che stiano nemmeno un istante. Abbiamo anzi costruito le nostre vite e la nostra società in funzione del loro nutrimento: non solo finché restano nel nido, come fanno i genitori del regno animale, ma tenendoli nel nido il più a lungo possibile, e comprandogliene uno nei pressi di casa per il dopo.


Il 90% dei figli tra i 18 e i 24 anni vive in Italia con i genitori, e quasi il 50% ci resta anche tra i 25 e i 34 anni (in Danimarca solo tre ragazzi su cento, in Svezia solo quattro, in Finlandia solo otto, perfino nella mediterranea Spagna i «bamboccioni» sono meno che da noi, il 41%).
Tutte le strategie di investimento e consumo delle famiglie italiane sono dunque fatte in funzione della protezione dei figli dal bisogno, con conseguenze sociali rilevanti e non sempre positive, che in questo libro cercheremo di analizzare. Affamati, insomma, mai.
E folli? Intraprendenti, curiosi, sfrontati, disposti a osare, ansiosi di superare lo stato dell’arte, in grado di ribellarsi agli standard fissati dalla generazione precedente? Nemmeno. Siamo così premurosi e accomodanti con i nostri figli da incitarli anche inconsapevolmente al conformismo.
Fate come noi, è il nostro messaggio. Vedete come siamo buoni e benpensanti, moderni e progressisti? Vedete come vi assecondiamo nei vostri bisogni e stili di vita? Vedete come perfino il sesso, che un tempo era la prima ragione di fuga di un ragazzo dal controllo della famiglia, ora vi è consentito a casa vostra, comodamente, nella stessa stanza che abitavate da ragazzi, con i poster dell’infanzia ancora attaccati alle pareti? E allora, che motivo c’è di essere foolish?


(…) Un «libertario» americano, Charles Murray, politologo di successo, ha scritto di recente un libro che ha fatto molto discutere. In Coming apart ha messo a confronto due città virtuali, una che si chiama Belmont dove vivono professionisti e laureati, e una che si chiama Fishtown dove vivono operai e commessi, e ne ha misurato comportamenti e aspirazioni. La sua conclusione è che l’economia non spiega affatto e certo non per intero il crescente divario culturale che si è aperto tra queste due Americhe. Perché in quasi cinquant’anni, dal 1968 ai giorni nostri, a Fishtown sono crollati i matrimoni, il numero dei credenti, il numero di coloro che cercano attivamente un lavoro, e a Belmont no. A Fishtown è esploso il numero delle ragazze madri, di chi abbandona gli studi, degli atti di criminalità, e a Belmont molto meno. Secondo Murray questa differenza deriva dal sistema di valori che è stato tramandato: meglio nella comunità più benestante e peggio in quella povera. Naturalmente gli studiosi liberal gli hanno risposto che non sono i valori a cambiare l’economia, ma l’economia a cambiare i valori.
Eppure chi di noi padri, arrivato alla sua età, con la sua esperienza, può negare a se stesso la verità, e cioè che tutto intorno a noi ci dice che è l’educazione (intesa in un senso molto più ampio della semplice istruzione) il fattore cruciale per la riuscita di una comunità e, al suo interno, dei nostri ragazzi?

E allora perché abbiamo completamente abdicato alla nostra funzione educativa per trasformarci in goffi sindacalisti dei nostri figli?


21 novembre 2012

 


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